Scene di vita vissuta. Un amico mi racconta una mattina d’estate al tribunale civile, in via Lepanto, a Roma, uno di questi giorni che il caldo dell’anti-ciclone ti rende le idee sudate: pare tutto surreale, ma ci credo, anche perché anch’io ho vissuto, a giugno, una vicenda del tutto analoga. Il mio amico (e collega) è, del resto, persona seria, che non gonfia i particolari e non abbellisce le circostanze.

E’ lì come testimone in una causa di lavoro. Corridoi affollati, ambienti non proprio impeccabili, dal punto di vista dell’igiene. Il giudice, anzi la giudice, è in ritardo: l’appuntamento è per le 11.00, l’interrogatorio, cioè l’escussione, comincia alle 12.00. La giudice è visibilmente contrariata: quando il teste entra, si dimentica i riti dell’ordinaria cortesia, il ‘buongiorno’ e il ‘prego, s’accomodi’, salvo poi piazzare uno scostante ‘che fa in piedi?’.

L’ufficio è piccolo, ma non minuscolo; dalla finestra aperta il caldo entra tutto e non dà scampo. S’affaccia un’impiegata: cerca un documento che le manca. La giudice la invita a vedere se non sia finito dietro un mobiletto sul cui ripiano si ammonticchiano dei fascicoli. L’impiegata scosta il mobiletto dal muro, constata che il foglio mancante non c’è, se ne va a proseguire altrove la ricerca. Speriamo che quel foglio non sia questione di ‘innocente’ o ‘colpevole’.

La giudice inizia l’escussione, trascrivendo a mano le risposte su fogli protocollo che al mio amico ricordano i compiti in classe del liceo. Le domande tradiscono una conoscenza molto approssimativa della vicenda e, soprattutto, una totale indifferenza al contesto in cui essa si svolse: confonde, ad esempio, filiali, succursali e agenzie; dirigenti, capi-servizio e capi-reparto. E quando il teste prova a precisare, viene zittito: le sue puntualizzazioni destano evidente irritazione.

Il mio amico è infastidito e imbarazzato: infastidito, perché ha l’impressione di essere considerato alla stregua di un imputato; imbarazzato, perché si sente inutile ed impotente, non ha l’impressione di servire la causa della giustizia, anzi ha persino il timore di intralciarla, mentre la giudice l’ammonisce: “Non creda di dettarmi quello che devo scrivere: scrivo come voglio io”. E giù una palese imprecisione. “Io non ho detto così”. “Non ha importanza: io ho capito così”.

L’interrogatorio finisce: il mio amico, madido di sudore, esce com’era entrato senza un buongiorno della giudice, che s’è subito tuffata in disquisizioni con gli avvocati. Certo, la causa è piccola e, magari, pure facile da decidere; e i processi sono tanti e bisogna smaltirli (senza per altro riuscirci molto bene, visti i tempi delle sentenze). Ma è questa la giustizia dei signor Rossi nella capitale? Se un’altra volta gli chiederanno di testimoniare, il mio amico, cittadino scrupoloso, che paga le tasse e pure le multe, quando le prende, ci penserà due volte.

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