Il ministro Fornero sta a grandi passi varcado i limiti. Dopo avere massacrato (termine che, anticipo, mi rifiuto di considerare eccessivo) il nostro sistema pensionistico, presente e futuro, rifiutando qualsiasi forma di confronto e inviando messaggi tanto unilaterali e senza contraddittorio quanto irrealistici circa la equità e la ricaduta positiva sui giovani delle idee, che si è levata dalla testa, sta ora armeggiando a quella che lei chiama riforma del mercato del lavoro ma che assomiglia, perlomeno per quanto trapela fin qui, a una riduzione di massima degli ammortizzatori sociali abbinata a un tentativo di rendere i licenziamenti totalmente discrezionali, anche se con indennizzi.

Già sin qui ci sarebbe a mio avviso materia per chiederne, anzi pretenderne, le dimissioni e, ove non ci siano, dare luogo a una protesta coordinata, efficace e a tempo indeterminato fino a che qualcuno non la restituisca alla sua professione; tanto prima tanto meglio.

E se il Governo fa quadrato bisognerebbe chiedere che se ne andasse in toto; prevengo le obiezioni di chi dice che ci ha salvato dall’angoscia dello spread e dal fallimento in stile greco: se il salvataggio deve ridursi alla emarginazione di alcuni, alla ulteriore distribuzione sbilanciata della ricchezza, alla consegna di maggior potere nelle mani dei potenti gruppi finanziari, allora meglio il fallimento collettivo, dal quale ripartire, forse, con pari opportunità e con una valuta non assoggettata ai desiderata di una nazione straniera.

Fatto questo inciso, per tornare alla Fornero, esiste anche un grave problema di forma, oltre a quello di sostanza; infatti la suddetta non perde quasi mai occasione per impartire lezioncine al popolo che però non è composto di studenti ma di persone con autonomia di pensiero e di opinioni (basterebbe citare gli “spaghetti al pomodoro” ai quali si dedicherebbero assiduamente i vagabondi italiani se non ci pensasse lei a tenerli a stecchetto senza sussidi di disoccupazione) e ultimamente mena vanto del fatto che la sua riforma sia osteggiata da tutte le parti sociali, indicando che proprio per questo motivo sarebbe una buona riforma; testualmente ha dichiarato, a Che tempo che fa: “Sono positiva sul lavoro che stiamo facendo; le piccole imprese si lamentano, Confindustria si lamenta, il sindacato variamente si lamenta. Questo dimostra che stiamo lavorando nell’interesse del Paese”.

Insomma, le parti sociali che rappresentano lavoratori e grandi e piccole imprese (cioè tutto il mondo produttivo) dicono che la riforma (notare bene: del loro mondo) non andrebbe bene; lo dicono anche i coltivatori diretti, gli artigiani e i commercianti e la Fornero da questo desume di stare facendo l’interesse del paese; domando: quale paese, di grazia? E su che cosa si basa questa affermazione che a rigor di logica sembra un sillogismo al contrario?

Vedo una pericolosissima sequela di presupponenze nelle dichiarazioni pubbliche della Fornero ancor prima che nelle sue riforme della cui arroganza pagheremo i conti per un paio di generazioni; mi sembra di vedere all’opera qualcuno che persegue, tenacemente, lo riconosco, un progetto del quale si è innamorata e che vuole portare a termine, costi quel che costi e senza curarsi dei danni collaterali, contro ogni indicazione diversa, a “dispetto dei Santi”; a meno che , dietrologicamente, non si volesse pensare a progetti eterodiretti.

Ciliegina sulla torta, la Fornero ha proseguito: “(serve) un più facile accesso e un’uscita non bloccata: finché alcuni dentro hanno l’uscita bloccata è più difficile entrare per chi è fuori” una frase che presa da sola ha il grave deficit di considerare il mondo del lavoro a quantità di posti bloccata (il ché, data la depressività delle manovre è perfino ottimistico), ma che, abbinata all’avere imposto la permanenza in attività dei lavoratori fino a 66 anni (70 in prospettiva), diventa una contraddizione tale da far dubitare che in realtà la Fornero non ce la racconti quasi mai tutta: vuoi vedere che lo scopo di tutte le varie riforme è banalmente quello di rimpinguare le casse dello stato tout court?

Pensiamoci bene: miliardi all’anno dalla riforma delle pensioni, i Tfr degli statali trattenuti per 24 mesi o più, gli ammortizzatori sociali ridotti; il tutto crea un fiume di denaro da cittadini e imprese verso lo Stato che può così “fare ammuina” su altre riduzioni.

Doveva cambiare tutto e non sta cambiando niente?

Ah no, qualcosa è cambiato: oltre ad essere vieppiù tartassati siamo anche trattati da minus habens a cui si possono raccontare favole; senza lieto fine, ovviamente.

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