Fino ai primi anni Novanta in Cina, gli intellettuali erano tutti affascinati dalla letteratura rurale che poteva vantare nomi del calibro di Mo Yan e Yan Lianke. Ma all’alba degli anni Zero questa fascinazione scompare. Nel 2001 la Cina entra nel Wto e Pechino si aggiudica le Olimpiadi del 2008.  È l’inizio del decennio di crescita vertiginosa: non sono più le campagne a incuriosire scrittori e lettori, ma le metropoli e l’urbanizzazione costante a cui la Cina è sottoposta.

Liang Hong (classe 1973) è una ricercatrice della Normale di Pechino. Si occupa di letteratura contemporanea. “Cominciavo a sentirmi a disagio. I contadini protagonisti dei libri si discostavano sempre di più dai contadini reali. E questi ultimi cominciavano a scomparire anche dai discorsi ufficiali e dai documenti della Propaganda. L’apice l’abbiamo raggiunto con lo slogan dell’Expo di Shanghai 2010: Better City, Better Life. Delle campagne nessuna traccia”.

Il suo ultimo lavoro Zhongguo zai Liangzhuang (La Cina è il villaggio Liang) nasce proprio per rispondere all’esigenza di capire cosa sono le campagne moderne. Il villaggio Liang è il posto dove è nata e dove vive la sua famiglia; lì torna ogni anno a trascorrere le feste. Ma nel 2008, in piena campagna olimpica, Liang Hong ci va con uno spirito diverso.

In quell’occasione guarda per la prima volta il suo villaggio con altri occhi. È un villaggio del nord della Cina, identico a tanti altri: “non grande, né piccolo; non ricco, né povero. Ha sviluppato negli ultimi trent’anni, problematiche comuni a molti altri villaggi della Cina settentrionale: rifiuti, desertificazione, inquinamento; e poi distruzione e ricostruzione di edifici.

Poteva essere un caso studio per tornare a comprendere le campagne cinesi e per riuscire a capire che futuro riservava la Nuovissima Cina ai contadini. Le sembrava infatti chiaro che, nell’immagine di sé che la Cina si stava costruendo, i villaggi non trovavano posto: “dovevano essere assorbiti”. Quello che non riusciva a capire era come e da cosa. Quello che capiva benissimo era che erano proprio i villaggi a mantenere intatte le radici e le tradizioni dell’intero paese.

Intervistando i suoi compaesani, si faceva sempre più forte in lei la consapevolezza che questi, seppure in apparenza conducevano una vita completamente normale, portavano in sé tutte le contraddizioni e i dolori della moderna povertà cinese. Una povertà che differiva completamente da quella sperimentata negli anni Cinquanta: “all’epoca si poteva parlare di lavoratori organizzati attraverso reti e strutture sociali, oggi invece sono lavoratori migranti, soli.”

I migranti di oggi vanno in città in cerca di fortuna, spesso lasciando i propri figli affidati ai nonni nei paesi d’origine, senza vederli anche per due o tre anni consecutivi. Lavorano duro, senza alcuna rete di protezione. Nessuno li accoglie. Non le strutture sociali delle città, né gli abitanti. Sono tollerati fino a quando c’è del lavoro da fare, ma al primo controllo risulteranno illegali. La maggior parte non ha permessi di lavoro né di soggiorno. E i loro figli non possono frequentare le scuole della città.

Liang ritrova tutto questo nei compaesani che intervista: situazioni famigliari al limite dell’impossibile e dolore, nascosto nel fondo dello stomaco. Chi rimane, chi torna, si lamenta costantemente e insulta i funzionari corrotti. Ma nessuno ha voglia di passare all’azione. Alle domande provocatorie di Linag Hong rispondono “vivremo qui tutta la vita e dopo di noi i nostri figli. Meglio non inimicarsi le famiglie potenti”.  Eppure il loro habitat naturale sta già scomparendo.

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