La Dia di Caltanissetta, su richiesta della Dda, ha eseguito quattro ordinanze di custodia cautelare in carcere nell’ambito della nuova inchiesta sulla strage del 19 luglio del ’92 in via D’Amelio, dove furono uccisi il giudice Paolo Borsellino e cinque agenti della sua scorta, Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Claudio Traina, Eddie Walter Cusina. I provvedimenti a firma del Gip di Caltanissetta Alessandra Giunta riguardano il capomafia palermitano Salvatore Madonia, 51 anni, Vittorio Tutino, 41 anni, Salvatore Vitale, 61 anni, tutti già detenuti e l’ex pentito di Sommatino (Caltanissetta), Calogero Pulci, 52 anni. Salvatore Madonia, detto Salvuccio, è considerato uno dei mandanti della strage. Pulci, risponde solo di calunnia aggravata perché nel processo “Borsellino Bis” in appello incolpò falsamente Gaetano Murana, di aver partecipato alle fasi esecutive dell’attentato di via D’Amelio. Murana venne poi condannato all’ergastolo.

Il Gip di Caltanissetta contesta al boss mafioso palermitano Salvatore Madonia l’aggravante di aver organizzato la strage di via D’Amelio per fine terroristici, con lo scopo di indurre lo Stato a trattare con Cosa nostra sotto l’urto di un’azione eclatante.

Trattativa, lo Stato sapeva

Secondo quanto ricostruito dalla Procura di Caltanissetta, con le deposizioni dell’allora ministro della Giustizia, Claudio Martelli, e di Liliana Ferraro, che aveva preso il posto di Giovanni Falcone come direttore Affari penali del ministero, pochi giorni prima di essere ucciso Paolo Borsellino venne messo al corrente di una visita del capitano del Ros dei carabinieri Giuseppe De Donno alla Ferraro. In quell’occasione, De Donno le parlò tra le altre cose, di una iniziativa del Ros con Vito Ciancimino per “fermare le stragi” o “lo stragismo”. Secondo i Pm, l’ufficiale rappresentava anche il suo superiore, il colonnello Mario Mori, e cercava un “supporto politico”.

Martelli, sentito dalla Procura, ha detto che la Ferraro gli comunicò il colloquio con De Donno: “Sono rimasto perplesso -ha affermato- poiché mi sono chiesto come mai De Donno avesse utilizzato proprio il termine ‘stragi’, posto che in quel momento si era verificata solo la strage di Capaci”. La Ferraro aveva invitato De Donno a riferire a Borsellino dei suoi contatti con Ciancimino, e poi lo fece lei stessa personalmente il pomeriggio del 28 giugno 1992: “Il dottor Borsellino non ebbe alcuna reazione, mostrandosi per nulla sorpreso e quasi indifferente alla notizia, dicendomi comunque che se ne sarebbe occupato lui'”, ha riferito la Ferraro.

Ferraro ha ricordato anche una conversazione telefonica con Borsellino sabato 18 luglio 1992: “Mi disse che era in partenza il lunedì successivo e che al ritorno si sarebbe fermato a Roma per avere un altro colloquio con me perché voleva parlarmi di tutte le questioni che avevamo in sospeso. Più esattamente mi disse “‘poi dobbiamo parlare’, sicché ritenni che vi potesse essere un nesso con le discussioni avvenute il 28 giugno 1992”. Ma l’indomani pomeriggio, Borsellino e cinque agenti della sua scorta furono dilaniati dall’autobomba di via D’Amelio.

Elementi esterni a Cosa nostra

Annotano i giudici: “Con riferimento al possibile coinvolgimento nella strage di Via D’amelio di soggetti esterni a Cosa nostra è opportuno evidenziare che fino ad oggi non sono emersi elementi di prova utili a formulare ipotesi accusatorie concrete a carico di individui ben determinati da sottoporre al vaglio di un giudice”. E ancora: “In particolare, su questo peculiare versante probatorio nessun elemento concretamente utilizzabile è emerso dalle dichiarazioni di Massimo Ciancimino, che è stato addirittura incriminato da questa Procura per calunnia”. Tuttavia, la Procura evidenzia “che elementi indiziari in ordine alla possibile presenza e partecipazione alle stragi del 1992 , ma anche all’attentato dell’Addaura del 1989, di soggetti esterni, emerge da altre investigazioni condotte da questa Procura basate su fonti probatorie diverse da Massimo Ciancimino: sicché su questo tema di indagine la partita non può affatto definirsi conclusa”.

Un traditore nello Stato

Nella seconda metà  del 1992 Paolo Borsellino esterna a più persone la preoccupazione che ci sia un traditore nelle alte sfere dello Stato. I colleghi magistrati dell’epoca Alessandra Camassa e Paolo Russo raccontano ai pm che un giorno Borsellino “ha un cedimento nervoso e, cosa inusuale per lui, si sdraia su un divano e piange: ‘Non posso pensare… non posso pensare che un amico mi abbia tradito”. Continua Camassa “La mia impressione fu che Paolo si sentisse tradito da una persona adulta autorevole, con la quale vi era un rapporto d’affetto: pensai che potesse trattarsi di un ufficiale di carabinieri”.

Ancora più esplicita è la testimonianza della moglie di Borsellino, Agnese Piraino Leto, resa ai pm il 27 gennaio del 2010. A metà giugno 1992 il maritò ebbe uno sfogo rivelandole, testualmente, che “c’era un colloquio tra la mafia e parti infedeli dello Stato”. Non basta: “Confermo che mi disse che il generale Subranni era ‘punciuto'”, cioè affiliato a Cosa nostra. Antonio Subranni, attualmente generale in congedo, all’epoca era il comandante del Ros, il raggruppamento speciale dei carabinieri in cui operavano Mori e De Donno. “Era sbalordito, ma lo disse con tono assolutamente certo, senza svelarmi la fonte. Aggiunse che quando glielo avevano detto era stato tanto male da avere avuto conati di vomito: per lui l’Arma dei carabinieri era intoccabile…”.

Borsellino ucciso perché ostacolo alla trattativa

Inoltre, secondo i magistrati, Paolo Borsellino venne ucciso dalla mafia perché era percepito da Riina come un “ostacolo” alla trattativa con esponenti delle istituzioni. Una trattativa che “sembrava essere arrivata su un binario morto” che il capomafia voleva “rivitalizzare” con una sanguinaria esibizione di potenza. Questo lo scenario disegnato dalla Procura di Caltanissetta. “La tempistica della strage è stata certamente influenzata dall’esistenza e dalla evoluzione della così detta trattativa tra uomini delle Istituzioni e Cosa nostra”. Si legge negli atti della Procura di Caltanissetta “Dalle indagini è altresì risultato”, scrivono i PM nisseni che al riguardo richiamano la testimonianza di Liliana Ferraro, succeduta a Giovanni Falcone al ministero della Giustizia, “che della trattativa era stato informato anche il dott. Borsellino il 28 giugno del 1992. Quest’ultimo elemento aggiunge un ulteriore tassello all’ipotesi dell’esistenza di un collegamento tra la conoscenza della trattativa da parte di Borsellino, la sua percezione quale ‘ostacolo’ da parte di Riina e la conseguente accelerazione della esecuzione della strage”.

Massimo Ciancimino inattendibile

Nell’ordinanza, poi, si definisce inattendibile il contributo di Massimo Ciancimino. E suo padre Vito, interrogato il 17 marzo 1993, tentò di collocare l’inizio della trattativa in un momento successivo all’attentato di via D’Amelio e riferì “di avere cominciato i colloqui con De Donno dopo la strage Borsellino, in ciò andando contro le stesse successive ammissioni del cap. De Donno, e contro le stesse dichiarazioni del col. Mori, che riferiscono entrambi di un inizio dei colloqui con Vito Ciancimino da parte di De Donno già nel mese di Giugno del 1992″.

Interrogato dai magistrati, Brusca sull’anticipazione dell’attacco contro Borsellino, ha detto: “Non ho mai parlato con Riina del fatto che il Dr. Borsellino sia stato ucciso in quanto ostacolo alla trattativa. Si tratta di una mia interpretazione basata sulla conoscenza che ho dei fatti di Cosa nostra, ma anche delle vicende processuali cui ho partecipato. Mi venne detto da Riina che vi era ‘un muro’ da superare ma in quel momento non mi venne fatto il nome di Borsellino. E’ sicuro, comunque, che vi fu un’accelerazione nell’esecuzione della strage”, ha detto Brusca, interrogato dai magistrati. La Procura di Caltanissetta rileva che la scelta di colpire Borsellino con nuovo eclatante attentato a meno di due mesi dalla strage di Capaci in cui il 23 maggio del ’92 era stato ucciso Falcone, potrebbe essere ritenuta “talmente avventata ed imprudente da apparire per ciò solo poco credibile”.

Anche perche’ il 19 luglio 1992, quando scoppio’ l’autobomba in via D’Amelio, mancavano pochi giorni dalla scadenza del termine di approvazione del decreto legge dell’8 giugno 1992, contenente, tra l’altro, la modifica dell’art. 41 bis dell’Ordinamento penitenziario, e la strage avrebbe annullato “tutte le possibilita’ di modifica che pure erano parse possibili nel corso del cammino parlamentare del decreto stesso”, osservano i Pm nisseni. Ma, “se si riflette sulle caratteristiche umane e criminali del cosi’ detto ‘capo dei capi’ quali emergono dalle dichiarazioni rese nei suoi confronti dai numerosi collaboratori di giustizia che lo hanno conosciuto e frequentato”, secondo i magistrati, “e’ del tutto plausibile che Salvatore Riina, noto per la sua feroce determinazione criminale, abbia potuto confidare che con il compimento di un ulteriore attentato di quella gravita’ si potesse rivitalizzare una ‘trattativa’ che sembrava essere arrivata su un binario morto, non curandosi delle conseguenze negative che da tale iniziativa sarebbero potute conseguire per la sua organizzazione criminale”.

Indagato Mannino

Secondo la Procura di Caltanissetta, “questa conclusione è legittimata, tra l’altro, dalle dichiarazioni rese dal collaboratore di giustizia Giovanni Brusca a proposito dell’ordine ricevuto da Salvatore Riina di sospendere, nel giugno 1992, l’esecuzione dell’attentato omicidiario nei confronti dell’on. Calogero Mannino perche’ ‘vi era una vicenda più urgente da risolvere'”. Mannino, ex ministro democristiano e segretario della Dc siciliana, è stato di recente iscritto nel registro degli indagati dalla Procura di Palermo nell’ambito dell’inchiesta sulla trattativa, per ipotetiche pressioni che, temendo di essere ucciso, avrebbe esercitato all’epoca delle stragi per un ammorbidimento del regime carcerario del 41 bis.

L’ordine dato dal boss corleonese di interrompere la preparazione dell’agguato contro Mannino, secondo i magistrati di Caltanissetta, “appare rivelatore della decisione da parte del Riina quanto meno di ‘anticipare’ l’esecuzione del progetto omicidiario gia’ deliberato – dalla commissione provinciale di Palermo di cosa nostra nel dicembre del 1991 – nei confronti del dott. Paolo Borsellino”. Borsellino, due giorni dopo la strage di Capaci, aveva incontrato il capo del Ros dei carabinieri Mario Mori e il capitano Giuseppe De Donno, e “il primo luglio 1992, con certezza, il dott. Borsellino aveva incontrato al Ministero dell’Interno il capo della polizia Parisi ed il Prefetto Rossi, nonche’ il ministro Mancino”, ricostruiscono i Pm a proposito dei contatti istituzionali del magistrato nei giorni dell’approccio dei carabinieri con l’ex sindaco mafioso di Palermo, Vito Ciancimino, indicato come il tramite della trattativa.

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