La sera del 20 febbraio, attraverso il Tg3 delle 19,00, abbiamo partecipato all’indicibile dolore di una madre. Il figlio di 22 anni si era appena impiccato in una cella d’isolamento del carcere di San Vittore. Era tossicodipendente, un disadattato, ma in quelle celle aveva subito – così giovane – ogni sorta di angherie e soprusi, abbandonato come un animale, senza una parola di aiuto, senza una coperta, senza uno sguardo pietoso.

Le leggi non scritte dei luoghi di reclusione vengono rispettate da tutto l’universo carcerario, di qua e di là delle sbarre. Ma il ragazzo non è diventato un “caso Cucchi”, ha scelto una scorciatoia. Questa madre non inveiva, non chiedeva “giustizia”, non piangeva nemmeno. Era una donna che portava su di sé la peggiore delle sconfitte: non aveva visto crescere il figlio che sognava. Aveva bussato alle porte “sociali”, dei Sert, delle comunità, delle parrocchie, aveva raccolto solo cortesi parole. Niente altro.

Questo ragazzo è stato “suicidato” dallo Stato e dalla sua indifferenza. La stessa indifferenza con la quale lo Stato guarda alle ruberie dei saccheggiatori di denaro pubblico che si annidano nella casta, nei poteri forti, nelle cricche, nelle confraternite massoniche segrete e devianti, nelle amministrazioni locali corrotte. Ed è proprio con questa sua indifferenza che lo Stato garantisce il massimo dell’ingiustizia. Monti ha detto che vuole cambiare gli italiani: che cominci da qui.

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