Gli intellettuali dei regimi sovietici, sia quelli organici sia i dissidenti, si piccavano di formare una classe a parte, definita (senza auto ironia) intellighentsia, con un ruolo guida (a loro modo di vedere) rispetto ai caporioni e al popolo bue. Nel regime semi-sovietico sopravvissuto in Europa questa classe, nel tentativo di compiere un salto di qualità attraverso il tubo catodico, è rimasta tristemente vittima della forza di gravità dando origine ad un fenomeno distintamente autoctono, l’ignorhentsia, di cui esiste persino un autoproclamato (ma subito universalmente acclamato) sovrano.

Quotidianamente ci imbattiamo in un replicante celentanico. A volte assume le sembianze del tipo da bar che ci ammorba con ovvietà profferite con prosopopea. Talora si manifesta come il collega raccomandato o il figlio di papà che dispensa (anche a noi che considera “sfigati”) le perle di saggezza che prendono corpo nella sua mente durante le tante giornate inconcludenti. E’ amico del bauscia che si lagna del governo, ma paga le mazzette. Si accompagna con il manager che comunica le sue visioni attraverso un “brainstorming”. Non disdegna quel tono e quell’atteggiamento dalle lunghe pause come se ti valutasse dall’alto in basso, incerto se concederti attenzione e in caso affermativo si domanda come scendere al tuo livello di comprensione. Il replicante trova sempre di che essere moderatamente tronfio visto che uno stuolo di menti labili ne compra dischi, libri o opere d’arte.

Ma soprattutto si muove a suo agio tra i meandri dell’ignorhentsia. In bilico tra l’intellettualoide un po’ di sinistra, un po’ da salotto, un po’ di destra, un po’ cerchiobottista, un po’ giustizialista, un po’ qualunquista a secondo delle convenienze, dell’aria che tira, ma contro il quale è bene non mettersi perché sa leccare bene dove serve e conosce con precisione chi comanda. E’ un tipo da spiaggia, ma schiocca le dita e fioccano taccuini e microfoni. Ama parlare di Fede, di Giustizia, di Uguaglianza, di Ambiente e altri Grandi Luoghi Comuni che attirano i sempliciotti soprattutto perché restando nel vago ognuno riempie i concetti di quello che gli sta a cuore.

A volte, specie se ti capita come vicino di ombrellone o te lo ritrovi nello scompartimento del treno, ti rifila qualche lamentela sui preti, un po’ protesta contro il governo per cui vota, talora inveisce contro i ricchi (gli altri), si scandalizza per le ingiustizie (tranne i suoi compensi), è anche caritatevole.

In fondo potrebbe non essere visto come un problema di estrema gravità: persino in America la domenica mattina predicatori invasati invadono i teleschermi. Ma almeno sono prediche finanziate da donazioni volontarie, non con tasse giustificate dal “servizio pubblico”. Insomma i versamenti ai santoni (milionari) svolgono un’utile funzione sociale in quanto insieme al gioco d’azzardo, Totocalcio e Gratta e Vinci sono un modo efficace per separare i soldi dai grulli.

Per l’Italia invece il prbelma si pone perché riflette l’immagine di un paese in bancarotta: se sui mezzi di informazione venisse dedicato alle analisi serie, alle scelte di lungo periodo, alle questioni scientifiche, alle inchieste sugli sprechi, alle inefficienze dello Stato, alla malasanità, all’Università e alla ricerca un decimo dello spazio dedicato a Celentano e alla transustansazione delle mutande di Belen forse si intravvederebbe una luce in fondo al tunnel. Ma il buio indica che l’infervorazione da festival dei fiori (pur nell’assenza di papaveri) è un destino profondo, una condanna da cui nessuna sobrietà ci redime. Maledetto il paese che si nutre di celentanate.

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