Siamo a Huè, Vietnam, da diverso tempo. Abbiamo visitato la Pagoda di Thien Mu, la Pagoda di Bao Quoc, la Pagoda di Tu Dam, la Pagoda di Chieu Ung, la Pagoda di Tang Quang. Abbiamo visitato la Cittadella, la tomba imperiale di Dong Khanh, la tomba imperiale di Tu Duc, la tomba imperiale di Thieu Tri. Ogni giorno andiamo a mangiare i pho migliori del Vietnam dalla signora Han, ogni sera camminiamo in silenzio nella città vecchia. Tommy ha scattato foto ai bufali, ai bambini, ai soldati, io ho buttato giù appunti per un libro, abbiamo bisogno di cambiare aria.

Il visto per il Laos è una formalità. Ce lo fa avere in quattro giorni un ometto silenzioso che gestisce un’agenzia turistica dietro la Scuola Nazionale. “Solo per qualche giorno” ci siamo detti. Siamo rimasti un mese.

Ma entrare in Laos, dopo l’iniziale facilità con cui è stato appiccicato il visto sui nostri passaporti, è un odissea. Partiamo da Hué alle quattro del mattino. Raggiungiamo Dong Ha dopo diverse ore, tagliando risaie verdissime e agglomerati di case fatiscenti.

Dong Ha, un tempo, ospitava il comando di logistica dei marines americani. In tutta l’area, vecchio confine fra la Repubblica del Nord e il regime fantoccio del Sud, i segni della guerra sono ancora evidenti. Povertà, rovine, campi bruciati, storpi. Da Dong Ha arrivare a Savannakhet, in Laos, è abbastanza facile se sei un turista occidentale, zaino firmato in spalla, e poca voglia di entrare in simbiosi con le usanze locali. La zona è piena di procacciatori turistici che organizzano autobus con aria condizionata e soste folcloristiche nelle zone di guerra. Dieci minuti di sosta a Camp Carroll, altri dieci a Khe Sanh, cinque minuti a Lang Vay, fra un sorso di birra e l’altra. E’ così che i giovani turisti anglosassoni imparano la Storia.

Mentre mangiamo una frittata fredda alla taverna posta sul piazzale degli autobus, decidiamo di ignorare lo sciame di occidentali e di comfort e saliamo su un pulmino sgangherato che può contenere nove persone, ma il detto tipicamente vietnamita “volere è potere” fa sì che ci si impegni per raggiungere un carico maggiore. Saliamo in dodici (tredici con l’autista), più un lattante, valigie, ceste, sacchi di iuta. Siamo gli unici due occidentali, nessuno parla francese o inglese.

Soste in villaggi Bru, bambini malnutriti, comunità tribali con fucili d’assalto, un sorpasso azzardato, un motociclista morto. Il nostro furgone, con mille brusii e il motore che gratta, supera un altro furgone stipato. Un terzo furgone va in doppio sorpasso alla nostra sinistra. È come se il tempo rallentasse, non ci rendiamo conto del motociclista fino a quando, di fronte al nostro finestrino, non vediamo la moto alzarsi in cielo e lui steso a terra, in una grottesca e drammatica posizione da “sturmptruppen” stecchita, le braccia rattrappite, la motocicletta a terra. Il nostro autista, non essendo stato coinvolto nello scontro, rimette in moto. Protestiamo che bisogna scendere e dare una mano a quel poveraccio. Il copilota ci dice qualcosa, facendoci vedere l’orologio al polso. Non parliamo. Guardiamo la boscaglia, la polvere rossa che si alza nel cielo. Un uomo è morto. Noi proseguiamo.

E incontriamo poveracci che sul ciglio della strada vendono bossoli arrugginiti. Sul Song Xe Pon c’è il confine, Lao Bao, vecchia roccaforte dell’artiglieria nord vietnamita. Davanti alla confinaria bambine abbronzate scambiano fasci di kip laotiani per dong vietnamiti.

I militari laotiani controllano i nostri passaporti. Guardano con curiosità il timbro dei loro colleghi di Tangeri. “Marocco, Africa”, gli diciamo, in inglese. Loro estraggono i timbri e l’inchiostro; due botte secche, due firme e siamo liberi.

Risaliamo sul pulmino. Una giovane donna vomita, l’autista imbocca un sentiero non asfaltato che passa a fianco alla perfetta, asfaltatissima Statale 9. Perché? Un mistero. Per cento chilometri il pulmino guaderà ruscelli, si inerpicherà su montagnole di terra rossa, schiaccerà rami secchi. E di fianco a noi la Statale 9, bella, lucente, asfaltata e nessuna macchina. Perché? Dopo tre ore di quell’inferno scorgiamo due operai che stanno mettendo asfalto caldo in una buca della Statale. Cento chilometri di strada bloccati per quel misero lavoro?

Articolo Precedente

Il sole sotto la neve

next
Articolo Successivo

Maltempo in Romagna: Errani visita i Comuni più colpiti, ma salta quello governato dal Pdl

next