La campagna per le primarie repubblicane si sposta in South Carolina (dove si voterà il 21 gennaio) e a questo punto il gioco si fa davvero duro. E sporco. “Winning Our Future”, un gruppo indipendente che appoggia Newt Gingrich, investe in queste ore 3,4 milioni di dollari in spot elettorali nello Stato. Il materiale, audio e video, è ispirato a un documentario di 28 minuti, “When Mitt Romney Came to Town”, e dipinge Romney come uno “spericolato affarista”, un figlio del privilegio che a capo della sua società di private equity, Bain Capital, ha distrutto aziende e contribuito a licenziare migliaia di lavoratori. Il documentario, prodotto da un ex-stratega repubblicano, Jason Killian Meath, compare su TV e radio del South Carolina grazie ai 5 milioni di dollari donati alla campagna di Gingrich dal re dei casinò, Sheldon Adelson.

“Sono a disagio. Newt usa il linguaggio della sinistra”, ha detto Rush Limbaugh, capofila dei commentatori radiofonici conservatori, per criticare la scelta di Gingrich di attaccare Romney con argomenti – capitalismo selvaggio, perdita dei posti di lavoro, avidità dei ricchi – che paiono più tipici di “Occupy Wall Street” che non della nomenclatura repubblicana. Critiche agli spot sono venuti da “Club for Growth” e “Americans for Prosperity”, quinte colonne del liberismo USA. E lo stesso ex-chairman del National Republican Committee, Michael Steele, ha spiegato che gli attacchi sono “incompatibili con i principi conservatori”.

Il partito repubblicano, e molti conservatori d’America, fanno dunque quadrato attorno al loro candidato più accreditato. Lo stesso Gingrich si è reso conto di aver toccato una corda particolarmente sensibile, e durante uno stop elettorale in South Carolina ha detto di “aver oltrepassato il limite”. Ciò non toglie che “Winning Our Future”, un gruppo ufficialmente indipendente da Gingrich, proprio non pensi (almeno per ora) a ritirare gli spot. E quindi, fino al 21 gennaio, i cittadini del South Carolina ascolteranno le testimonianze di lavoratori licenziati per le spericolate operazioni finanziarie di Romney. Oltre a essere informati sul fatto che Romney possiede 15 case, non 3, come lui dichiara (informazione non verificata); e che la sua ricchezza personale non è 190 milioni dollari, come denunciato, ma di 250 milioni (anche questa, informazione non verificata).

“Tutti sanno che la politica è uno sport di contatto”, ha detto anni fa Barack Obama, e la campagna repubblicana non fa eccezione. Oltre “il contatto”, qui, c’è molto di più. E cioè l’illazione, l’insinuazione, il fango, un complesso di voci e accuse che rischiano di incrostarsi sul candidato, riducendone le chance il prossimo novembre. Un po’ come successe nel 2004, quando saltò fuori un gruppo, gli “Swift Boat Veterans for Truth”, legato ai repubblicani, che mise in dubbio la carriera militare di John Kerry in Vietnam. Per questo oggi gli stessi repubblicani, protagonisti nel passato di diverse smear campaigns, “campagne di fango” (Richard Nixon, soprannominato non a caso “Dirty Dick”, ne era maestro), cercano di correre ai ripari e impongono ai loro un confronto meno violento.

Potrebbe comunque essere difficile, a questo punto della corsa, bloccare il fiume di fango. E’ infatti l’aura di segretezza, di non verificabilità del passato di Romney a Bain Capital, ad alimentare voci e sospetti. Per mesi l’ex-governatore del Massachusetts, che ama presentarsi come un “businessman prestato alla politica”, ha detto di aver contribuito a “creare migliaia di posti di lavoro con la mia società”. E per mesi decine di giornalisti (in questo si sono distinti soprattutto quelli di “Factcheck.org”) hanno cercato senza successo di verificare l’informazione.

Finalmente, agli inizi di gennaio, il team di Romney ha deciso di essere più preciso, e ha parlato di 100 mila nuovi posti di lavoro creati in tre compagnie che Bain ha aiutato a nascere o a crescere: Staple, The Sports Authority e Domino’s. Una nuova raffica di controlli incrociati ha però messo in dubbio l’affermazione. I 100 mila posti di lavoro non terrebbero in conto quelli persi in almeno quattro società acquisite da Bain e che più tardi hanno subito ridimensionamenti o hanno chiuso: UniMac, KB Toys, Ampad e DDIC. Bain Capital, da parte sua, si è sempre rifiutata di commentare, rifiutando di dare al Wall Street Journal una lista delle società in cui ha negli anni scorsi investito (citando non meglio precisate “esigenze di privacy”).

I repubblicani possono dunque cercare con ogni mezzo, oggi, di bloccare le polemiche intestine su Romney e Bain. Nel caso Romney vincesse la nomination, niente potrà però bloccare i democratici dal girare l’America, cercando storie di uomini e donne rovinati dalle operazioni del candidato repubblicano. Il partito di Obama ha già in mano un filmato di repertorio, di qualche anno fa, che pare perfetto allo scopo: Romney che ride e dice: “Fare profitto! Non si riduce tutto a questo?”

Il sogno del “businessman prestato alla politica”, creatore di migliaia di posti di lavoro, rischia così di trasformarsi nel suo esatto contrario. Nella realtà del candidato più foraggiato da Wall Street, che ha chiuso imprese e licenziato e creato povertà. Non un buon viatico, per diventare presidente degli Stati Uniti.

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