Il giorno di Natale ci ha lasciato Giorgio Bocca. Al suo funerale, nella basilica di San Vittore, c’era la Milano migliore, quella che non si è mai piegata ai potenti che si sono via via insediati nella ex capitale morale, da Michele Sindona a Roberto Calvi, da Bettino Craxi a Silvio Berlusconi.

Pochi giorni dopo, se n’è andato don Luigi Verzè, che con Bocca aveva in comune solo l’età, 91 anni. Il prete del San Raffaele è stato per decenni coccolato dalla Milano dei poteri costruiti con giochi di prestigio, soldi senza odore, lobby e logge all’ombra della politica. Quella Milano che è stata l’oggetto delle inchieste e dei commenti di Bocca.

Di alcuni dei potenti che hanno stregato Milano, don Verzè è stato amico e complice. Eppure questi non si sono fatti vedere alle esequie a Illasi, né alla camera ardente allestita sotto la cupola con l’angelone in stile Las Vegas che don Verzè aveva voluto “più ampia di quella di San Pietro, più alta della Madonnina”. Assenti tanti “amici” del San Raffaele. Non c’era Pio Pompa, “raffaeliano” mandato da don Luigi al Sismi, il servizio segreto militare. Non c’era Niccolò Pollari, già direttore del Sismi. Non c’era Piero Daccò, faccendiere ciellino, manager ombra dei conti esteri del San Raffaele (assente giustificato, essendo in carcere). Non c’erano i soci in odore di camorra che hanno contribuito a costruire l’ospedale.

Non c’era, naturalmente, Mario Cal, che ha condiviso in vita tutte le scelte di don Luigi e lo ha drammaticamente preceduto nell’aldilà. Non c’era Roberto Formigoni, gran controllore della sanità lombarda e gran pagatore della sanità privata con soldi pubblici, che a ogni scandalo della sanità si mostra soavemente stupito. Non c’era, infine, Silvio Berlusconi, gran padrino del San Raffaele fin dalla fondazione, proprio accanto alla sua Milano 2.

Le assenze erano più pesanti delle presenze. A dare l’estremo saluto c’erano soltanto i sostenitori più vicini, come Ferruccio Fazio, primario del San Raffaele non senza conflitto d’interessi, mandato da don Verzè a fare il ministro della Sanità. C’erano Renato Pozzetto e Albano Carrisi, che almeno hanno testimoniato con coerenza la loro amicizia con il prete-manager, come lo chiamano i giornali, ma che sarebbe più corretto chiamare prete-bancarottiere, visto che ha lasciato in eredità ai vivi un buco di un miliardo e mezzo. C’era Vittorio Sgarbi, a fare folklore dark.

E c’era Massimo Cacciari, che anche questa volta ha perso l’occasione per stare zitto: ha sbagliato una citazione (sulle mani pulite solo perché tenute in tasca) di don Milani, prete-maestro, povero e rigoroso, spericolatamente paragonato a don Verzè, prete-affarista, spregiudicato e amico dei potenti.

Ma questi non si sono fatti vedere: quando la barca affonda, meglio girare al largo, e che i morti seppelliscano i morti. Le assenze eccellenti, però, non sono solo un segno di viltà, sono anche il sintomo della debolezza di un sistema di potere che a Milano è entrato in crisi, ben al di là del crac San Raffaele: senza più referenti a Palazzo Marino dopo l’arrivo di Giuliano Pisapia, con il Pirellone di Formigoni assediato dalle inchieste, con la crisi che ha contribuito a sovvertire i vecchi equilibri e ha messo in difficoltà, per esempio, un potente come Salvatore Ligresti.

Potrebbe essere davvero una svolta, se solo la Milano che non ha dimenticato Giorgio Ambrosoli riprendesse voce e coraggio.

Il Fatto Quotidiano, 5 gennaio 2012

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