“Mi sono vomitato, mi sono creato, trasformato, risputato, e più volte”. È l’inizio di “Febbre”, il romanzo d’esordio di Giulio Minghini, ferrarese di Portomaggiore emigrato in Francia, a Parigi, anni fa. E sulla Senna lavora come lettore e traduttore dal francese per Adelphi. Ed è lì che la sua opera prima è diventata un cult tra la narrativa contemporanea nazionale, realizzando quello che non gli sarebbe stato possibile realizzare in patria.

Febbre, questo il titolo del libro, nasce nel 2009. Parla di un giovane esiliato per amore nella ville lumiere, che si rifugia in internet per trasformare incontri virtuali in frenetici appuntamenti sessuali.  In Francia è “Fake”, “falso”, come gli internauti che si aggirano sul web falsificando la propria identità. La traduzione italiana ha abbandonato il titolo originale. “Un’idea dell’editore – spiega Minghini – temeva che la parola inglese spaventasse a morte il possibile acquirente del romanzo”.

Ecco già uno dei motivi per cui questo scrittore di 39 anni vive oltralpe. Non è l’unico. Altre tracce sono disseminate in questo libro. Basta scorrere i pensieri del protagonista quando gli si rivolgono domande sull’Italia: “un paese governato dal peggio. L’Avanguardia stessa del peggio: abolizione di qualsivoglia discorso critico, dilagante volgarità dei costumi, corruzione generalizzata e sistematica, ignoranza eletta a regola, culto scandaloso del denaro, disprezzo ostentato delle idee e dell’intelligenza, moralismo rancido”.

Insomma, l’Italia “bisognerebbe chiuderla, o magari venderla”. C’è altro? C’è altro. Pure a rischio blasfemia. Cosa dire di “quel tumore dallo strano copricapo bianco che gesticola tutte le domeniche da un balcone del Vaticano?”; o del “porco cupido (qui in fondo il giudizio non si discosta molto dal “giullare priapico” del Washington Post, ndr) che governa i miei compatrioti?”. Sull’identificazione del pensiero del protagonista con il suo autore non si sbaglia: “la penso esattamente come lui”, taglia corto Minghini.

E di questo alter ego che oscilla tra un corpo e l’altro, tra un coito e una chat come un novello Bardamu in fuga dal mondo, non conosceremo mai il nome, se non l’avatar, il nickname “Delacero”, “il prostituto – chiarisce l’autore – comune nei bordelli di lusso dell’Italia anni Venti, che poteva venire affittato dal cliente per una partita a tre”.

Delacero, sempre più febbrile habitué di siti di incontro, si trasforma in “un uomo in affitto – come lo descrive Minghini – spossessato della propria indipendenza erettile, che si perde in un labirinto popolato da lemuri erotici e spettri virtuali. Tutto, nel libro, ogni incontro, ogni dialogo, ogni gesto accade fra veglia e sogno, fra allucinazione e lucido rendiconto… È un libro sulla solitudine che conduce alla follia. Non solo alla follia”.

Questo vortice ne disgrega la personalità, diventa “un istrione che non esce mai di scena, mantenuto in vita dallo spettacolo che improvvisa ogni sera”. Fino al delirio. Fino alla fine. Quando ormai “mi sono falsificato. Ho coniato una moneta falsa di me. E mai, in nessun caso, questa moneta potrà ricomprarmi”. Non rimane che uno stanco movimento di mouse. Con la freccia che preme sull’ultima parola del romanzo, “Disconnessione”.

Per la prossima “riconnessione” non dovremo attendere molto. “Sto scrivendo un libro – anticipa a ilfattoquotidiano.it lo scrittore ferrarese – sulla mia nebbiosa giovinezza a Portomaggiore, il paese dei matti”. In che lingua? In francese, évident. “Potrei dire che in Italia non ho un editore. E sarebbe una risposta sufficiente. Ma la verità è che il francese è la mia patria d’esilio. E per ora (ancora per un libro o due) ho deciso di restarmene nascosto nella sua foresta sintattica”.

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