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Licenziamenti facili in stile British

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Prima o poi qualcuno dovrà iniziare a spiegare ai lavoratori del mondo occidentale come mai l’unica ricetta che i loro governi sanno proporre per rilanciare l’economia e garantire la crescita è il licenziamento facile. Non si vede infatti come licenziare possa creare un solo posto di lavoro in più. La logica sfugge, ma il mantra ormai è sempre il solito ovunque.

Come riferisce l’Independent di ieri, una delle misure anticrisi che il governo del conservatore Cameron sta vagliando è proprio quella di “limitare i diritti dei lavoratori britannici”, ovviamente con lo scopo di “ridurre la burocrazia per le imprese” e “aumentare i livelli della crescita anemica della Gran Bretagna”.

La notizia è trapelata perché qualche manina dispettosa ha passato ai giornali la bozza del cosiddetto Rapporto Beecroft (dal nome di Adrian Beecroft, un ricco venture capitalist finanziatore dei conservatori), uno studio commissionato dallo stesso Cameron per capire come ridurre il numero di cause nei tribunali del lavoro e colpire i “fannulloni” nella Pubblica amministrazione (Brunetta proverebbe un brivido di piacere lungo la schiena …).

Le novità sarebbero le seguenti: riduzione del periodo di preavviso da 90 a 30 giorni, possibilità di licenziare i dipendenti “con scarso rendimento personale” senza giusta causa, e – ciliegina sulla torta – eliminazione della possibilità di ricorrere in tribunale contro il licenziamento. Dal prossimo aprile, inoltre, il periodo di assunzione necessario per poter portare il proprio datore di lavoro in tribunale per violazione dei diritti è salito da un anno a due.

La proposta sta creando gravi tensioni ai vertici del governo e i liberaldemocratici Nick Clegg e Vince Cable si sono arroccati in un no senza condizioni, sostenendo che non ci sono prove di come il licenziamento senza giusta causa potrebbe aiutare l’economia. Visto il clima che si respira a Londra, è probabile che ad averla vinta saranno i falchi conservatori. Sempre in nome della crescita e della competitività, of course.

Il Fatto Quotidiano, 24 novembre 2011

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