Il fiume Niobrara dove sarebbe dovuto passare l'oleodotto Keystone XL

Business o ambiente? Industria o tutela del territorio? E’ una delle (tante) scelte che Barack Obama si è trovato di fronte, affrontandole parzialmente, tra compromessi e rinvii, lasciando entrambe le parti insoddisfatte, comunicando un’impressione di indecisione, attendismo, doppiezza che di sicuro non aiuta la sua campagna presidenziale.

Per capirlo bisogna venire in Nebraska, un posto di pianure vuote e sterminate e di gente che vive dei prodotti della terra – granturco, soia – e dell’allevamento di bovini e maiali. “Dove il West inizia”, dice un cartello che ti accoglie a Lincoln, la capitale dello Stato, una città diffusa e anonima come tante altre del Midwest, teatro negli ultimi mesi di una disputa nazionale che ha visto ambientalisti e mondo dell’industria e del capitale su opposte barricate.

E’ in Nebraska, infatti, in particolare tra le dune e le paludi miracolosamente intatte di Sand Hills, che avrebbe dovuto passare l’oleodotto Keystone Xl, un serpente lungo 2700 km, concepito per portare il greggio dalle sabbie del Canada sino alle raffinerie dell’Oklahoma e del Texas. Il progetto, sponsorizzato da TransCanada Corporation, con previsioni di produzione di 435 mila barili al giorno, è però stato bloccato dall’amministrazione Obama. “Troppi i rischi per l’ambiente”, ha spiegato il Dipartimento di Stato, che ha imposto una revisione del piano e un suo rinvio a dopo le presidenziali 2012.

“Rinviare. Rinviare. E’ quello che questo presidente ha fatto sinora”. Ce lo dice George Perry, pensionato sessantenne di Lincoln (la sua fabbrica produceva tenaglie; nel 2008 è stata chiusa e la produzione spostata in Cina). In un pomeriggio di metà novembre, Perry si ritrova con alcuni amici ad ascoltare Jim Mason, coordinatore dei Tea Party Patriots. “L’ultima volta ho votato democratico. Ora guardo dall’altra parte”. Perry è uno dei tanti blue-collars, operai dell’America del Centro e del West, che rimproverano a Obama scarso impegno nella lotta alla disoccupazione. “L’oleodotto avrebbe creato migliaia di posti di lavoro. E quello cosa fa? Ascolta un gruppo di fottuti radicali”.

In realtà, non sono stati solo gli ambientalisti a opporsi al passaggio di Keystone Xl per le terre ricche d’acqua di Sand Hills. Il governatore dello Stato, il repubblicano Dave Heineman, tutta la leadership repubblicana di uno Stato saldamente nelle mani dei conservatori (qui Bush vinse con il 64% nel 2004, McCain con il 56% nel 2008), si sono detti d’accordo a rivedere il progetto e a cercare un altro percorso. A esprimere frustrazione per un affare sfumato da 7 miliardi di dollari sono rimasti il governo canadese, alcuni sindacati, e ovviamente TransCanada e tutta la lobby del petrolio, che hanno definito la decisione un cedimento di Obama “all’elettorato radicale in vista del 2012”.

“Il problema è che questi sono pazzi – ci dice Alan Cowen, un ambientalista di Lincoln -. Avrebbero costruito un mostro petrolifero in mezzo alla falda acquifera di Ogalalla, una tra le più grandi al mondo, fondamentale per tutte le Grandi Pianure”. Cowen ha trascorso la notte in bus, di ritorno da Washington, dove ha partecipato alle proteste contro Keystone XL davanti alla Casa Bianca. La decisione di rinviare tutto, comunque, non lo convince. “Cosa succederà dopo il 2012? Cosa succederà nel caso un repubblicano dovesse vincere le presidenziali? E poi, siamo proprio sicuri che Obama abbia davvero a cuore la tutela dell’ambiente?”.

Le preoccupazioni di Cowen, che prima dello scoppio del caso Keystone Xl era un insegnante senza particolare interesse per le questioni ambientali, sono condivise da buona parte del mondo ecologista americano. “Obama pensa di conquistare il nostro voto, concedendoci un anno di rinvio”, ha scritto Glenn Hurowitz, un attivista del Center for International Policy. Hurowitz e tanti altri rimproverano a Obama i troppi ondeggiamenti, il venir meno alla promessa di “restaurare il ruolo della scienza nelle questioni ambientali”, fatta nel discorso inaugurale della sua presidenza, nel 2008.

In effetti gli ondeggiamenti sono stati molti. Prima della parziale vittoria concessa agli ecologisti nel caso dell’oleodotto, Obama si era rifiutato di fissare nuovi limiti alle emissioni di Co2 (“troppo pesanti le ricadute sull’industria e sull’occupazione”, secondo il capo staff William Daley); aveva imposto un bando, fino al 2015, alle trivellazioni off-shore nell’Artico; aveva bloccato l’introduzione di regole più rigorose contro le ceneri prodotte dalla combustione del carbone. Un colpo al cerchio e uno alla botte che non gli ha conquistato l’appoggio della grande industria del petrolio e dell’energia (che quest’anno finanzia abbondantemente Mitt Romney) e che alla fine gli ha fatto perdere consensi nel mondo ambientalista che l’aveva appoggiato con entusiasmo nel 2008.

Ha scritto Al Gore, in un editoriale su Rolling Stone: “L’elezione di Obama è stata accompagnata dall’intensa speranza che molte delle cose che dovevano cambiare sarebbero cambiate. Alcune lo hanno fatto, altre no. La politica climatica, purtroppo, rientra nella seconda categoria”. Il pezzo di Gore lo cita Alan Cowen, l’ambientalista di Lincoln. Prima di lasciarlo, abbiamo il tempo di chiedergli: chi voterà, nel 2012? “Obama”, risponde. “Ma ho alternative?”

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