La povertà degli italiani non interessa alla classe politica. Quando parla di un paese benestante perché i ristoranti sono pieni, Silvio Berlusconi riecheggia una frase analoga di Bettino Craxi. E conferma quanto ampia sia la distanza fra la classe politica e i problemi legati alle condizioni di vita delle fasce più marginali della popolazione. Ma questo atteggiamento di indifferenza è antico, radicato e persistente nella storia italiana. Forse è arrivato il momento di affrontare il problema.

di Nicola Amendola* e Giovanni Vecchi** (www.lavoce.info)

A noi pare che si vada confermando una sconsolante evidenza a sostegno di una tesi tanto spiacevole quanto imbarazzante: la povertà degli italiani non interessa alla classe politica. Non siamo certo i primi a denunciare questo fatto. (1) Ma in ogni caso ce lo ha ricordato e reso ben chiaro, venerdì scorso, il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, quando nel corso della conferenza stampa al vertice del G-20, ha dichiarato: “Mi sembra che in Italia non ci sia una forte crisi. La vita in Italia è la vita di un paese benestante, i consumi non sono diminuiti, per gli aerei con fatica si riesce a prenotare un posto, i ristoranti sono pieni, i posti di vacanza nei ponti sono iper-prenotati (…)” .

È vero, i poveri non vanno cercati nei ristoranti e non sono soliti viaggiare in aereo, ma di fronte dell’affermazione del presidente Berlusconi, è difficile sottrarsi dalla riflessione di quanto sia ampia la distanza fra la classe politica e i problemi legati alle condizioni di vita delle fasce più marginali della popolazione e di quanto sia antico, radicato e persistente, nella storia italiana, l’atteggiamento di indifferenza che a tale distanza fa da riscontro.

Una lunga indifferenza
Abbiamo documentato altrove il difficile rapporto fra politica, istituzioni e povertà. Abbiamo mostrato come nell’Italia liberale (diciamo dal 1861 al 1911), la lotta alla povertà non fosse uno strumento di promozione del benessere sociale, quanto piuttosto una materia di competenza dei prefetti: i poveri interessavano solo e soltanto in quanto possibile causa di problemi di ordine pubblico. (2) Durante il ventennio fascista, nonostante la nascita di istituzioni esplicitamente rivolte ai poveri (si pensi agli Enti comunali di assistenza), l’orientamento del regime fu di non enfatizzare, se non addirittura di dissimulare il fenomeno della povertà. Nel secondo dopoguerra il tabù della povertà venne meno: di fronte alle dimensioni di massa del fenomeno, furono promosse numerose indagini conoscitive, alcune delle quali anche nella forma di inchiesta parlamentare. Si trattò tuttavia di iniziative sporadiche, fuochi d’agosto. Così sottolinea anche il rapporto 2011 sulla povertà della Caritas italiana: “Non si può certo affermare che non ci siano stati interventi a favore dei poveri, negli oltre sessant’anni di vita repubblicana, ma si è trattato prevalentemente di interventi locali, settoriali, occasionali, che di fatto si sono rivelati ininfluenti nella riduzione della povertà nel nostro paese”. (3)

Qualcosa sembrò cambiare verso la fine degli anni Settanta, quando il tema cominciò ad attrarre l’attenzione della comunità scientifica italiana, anche in conseguenza degli effetti della crisi petrolifera e del rallentamento dell’economia mondiale. La prima stima istituzionale della povertà comparve nel 1979, con i risultati pubblicati nel 1982, a cura di Giovanni Sarpellon. Un ulteriore accelerazione si registrò con l’istituzione della Commissione di indagine sui temi della povertà, nata ufficialmente il 31 gennaio 1984. Si trattò peraltro di una stagione che seppur breve, testimoniò una caduta drammatica dell’incidenza della povertà assoluta nel paese, che passò da valori intorno al 20 per cento fino al 4-5 per cento.

Pochi forse lo ricorderanno, ma le parole del presidente Berlusconi riprendono, quasi testualmente, la dichiarazione che il presidente del Consiglio Bettino Craxi rilasciò a commento della pubblicazione del primo rapporto redatto dalla Commissione di indagine sui temi della povertà. Secondo i calcoli della Commissione, gli individui poveri (adottando una misura di povertà relativa) nel 1983 erano oltre 6 milioni (ovvero l’11,1 per cento della popolazione), un risultato che produsse un vivace dibattito nel paese. A margine della presentazione ufficiale del rapporto, Craxi tentò di ridimensionare l’entità del problema, ironizzando sulle conclusioni della Commissione. Secondo la ricostruzione di Ermanno Gorrieri: “Al presidente del Consiglio [Craxi] i giornalisti chiesero se riteneva possibile che ci fosse ancora della povertà nella quinta potenza industriale del mondo. La risposta fu: quando vado in giro vedo i negozi pieni di ogni ben di Dio, i ristoranti affollati, la gente che fa le vacanze all’estero… Mah, non saprei”. (4)

Pare insomma non interrompersi la linea rossa che percorre la storia del rapporto fra politica e povertà nel nostro paese. Anche se i responsabili della politica economica e sociale chiudono gli occhi, i poveri d’Italia sono sempre lì: è forse giunto il tempo di invitarli davvero al ristorante?

(1) Marco Revelli afferma, ad esempio: “So benissimo che la povertà interessa poco. Lo so per averlo sperimentato giorno dopo giorno nel triennio in cui mi è capitato di presiedere la commissione d’indagine sull’esclusione sociale (Cies) (…) È spiacevole a dirsi, ma è così. Interessa poco al sistema dei media, perché essendo cosa grave e preoccupante, non lascia spazio al gossip. E interessa poco anche alla politica (…) perché in assenza di politiche sociali credibili, di contrasto e di risposta, la povertà non è un item quotabile alla borsa del consenso politico.” (Revelli M. (2010), Poveri noi. Einaudi, pag. 34-35).

(2) Si veda Amendola, N., F. Salsano e G. Vecchi (2011), “Povertà”, in G. Vecchi, “In ricchezza e in povertà. Il benessere degli italiani dall’Unità a oggi”, Il Mulino, Bologna.

(3) Caritas Italiana – Fondazione “E. Zancani” (2011), Poveri di diritti Rapporto 2011 su povertà ed esclusione sociale in Italia. Il Mulino, Bologna, pag. 19.

(4) Carattieri, M., Marchi, P. e Trionfini, M. 2009 Ermanno Gorrieri (1920-2004). Un cattolico sociale nelle trasformazioni del Novecento, Bologna, Il Mulino.

* Nicola Amendola è Ricercatore in economia politica all’Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”.

** Giovanni Vecchi, laureato in Economia e Commercio presso l’Università di Modena, e’ Professore di Economia Politica all’Universita’ di Roma “Tor Vergata”. Si occupa di teoria, misurazione e storia del benessere. Su questi temi ha pubblicato numerosi articoli sulle principali riviste internazionali. Con il Mulino ha pubblicato “In ricchezza e in povertà. Il benessere degli italiani dall’Unità a oggi”. E’ consulente per la World Bank in tema di misurazione e stima della poverta’ e della disuguaglianza economica. In questa ambito, partecipa regolarmente ai nuclei in missione presso i paesi che richiedono assistenza tecnica per la valutazione delle condizioni di vita della popolazione.”

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