In questo periodo di proteste sono stati diffusi in rete appelli come Noi il debito non lo paghiamo. Dobbiamo fermarli”. Ma non sarebbe meglio dire: il debito deve essere pagato da chi ci ha speculato sopra, da chi ci si è arricchito più di quanto lo era già?

L’ambiguità delle affermazioni tipo “Non paghiamo il debito” derivano da una interpretazione della crisi e delle sue cause un po’ semplicistica. Si parla infatti «di una crisi provocata e gestita dai ricchi e dal grande capitale finanziario». Ma si tratta davvero di una crisi prevalentemente finanziaria? Non della crisi di un modello economico e produttivo fondato sulla crescita della produzione di merci?

I colossali debiti pubblici dei Paesi industrializzati, a cui occorre aggiungere i debiti delle famiglie e delle imprese, sono stati accumulati allo scopo di accrescere sistematicamente la domanda per assorbire le quantità crescenti di merci immesse sui mercati in conseguenza di un aumento della produttività dovuto allo sviluppo tecnologico. Il pagamento del debito deve quindi ricadere sulle spalle di chi ha gestito la domanda speculandoci sopra, mediante una tassazione mirata sui grandi capitali e i grandi profitti. Il debito va pagato da loro.

Ma questo non basta se contestualmente non si interviene per eliminare le cause che hanno portato all’accumulazione di questi debiti. Solo una decrescita selettiva del Pil, ottenuta eliminando gli sprechi e le inefficienze con uno sviluppo tecnologico diverso, non più finalizzato ad accrescere la produttività, ma a ridurre il consumo di risorse, il consumo di energia e le quantità dei rifiuti, può consentire che non si accumulino di nuovo dei debiti per assorbire una produzione crescente di merci che non sarebbe assorbita autonomamente dal mercato.

Dunque: il debito è stato contratto dagli Stati per consentire alle grandi aziende di vendere tutto ciò che producono (per esempio i contributi pubblici per la rottamazione delle automobili) o di realizzare grandi opere pagate dal denaro pubblico (per esempio il Tav, le autostrade, le strutture olimpiche). Per pagare questi costi gli Stati si sono fatti prestare i soldi dai risparmiatori e li hanno dati alle grandi imprese. Se si decide di non pagare più il debito, chi ha avuto ha avuto (le grandi imprese), chi ha dato ha dato (i risparmiatori) e non gli viene restituito ciò che ha dato. Ma chi sostiene queste proposte ha una vaga idea delle loro conseguenze? Il debito va pagato e lo devono pagare le classi sociali che ci si sono arricchite sopra.

Questo va detto senza ambiguità, senza rifugiarsi dietro frasi vuote come: «Si deve uscire dalla crisi con il cambiamento e l’innovazione». O affermazioni del tipo: «Le risorse ci sono». Se per risorse s’intendono quelle della Terra, sono in molti ad avere dei dubbi che ce ne siano ancora abbastanza per continuare a consumarne come si è fatto negli ultimi cento anni. Se per risorse s’intendono quelle finanziarie e si porta come esempio il taglio delle spese militari (che va fatto per ragioni etiche su cui non occorre spendere parole) non si ha idea di cosa si sta parlando: il bilancio del Ministero della difesa italiano nel 2010 è stato di 27 miliardi di euro, il costo dei 131 cacciabombardieri F 35 ammonterà nei prossimi anni a 17 miliardi di euro, il debito pubblico italiano viaggia verso i 2000 miliardi di euro. Il taglio delle spese militari non basta.

Tutto ciò può dare una boccata d’ossigeno. Ma non servirebbe se son si eliminassero le cause che hanno portato alla formazione dei debiti pubblici e cioè la finalizzazione dell’economia alla crescita della produzione di merci. Solo una politica economica e industriale finalizzata alla riduzione dei consumi inutili e degli sprechi, la crescita dell’efficienza energetica, lo sviluppo delle fonti rinnovabili, il recupero dei materiali contenuti negli oggetti dismessi, il blocco della cementificazione, la ristrutturazione del patrimonio edilizio esistente, il potenziamento dei trasporti pubblici e forti limitazioni all’uso dei mezzi privati possono consentire alle economie dei paesi industrializzati di uscire dalla spirale dei debiti che li sta strozzando.

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