L’ex pastificio bolognese Corticella resiste. I lavoratori portano la loro protesta e tutta la storicità dell’azienda ai piedi di Palazzo d’Accursio per chiedere alle istituzioni e alla cittadinanza di dire no ai trasferimenti e no alla chiusura dello stabilimento.

Nata nel 1948 e rilevata nel 2007 dalla svizzera Newlat Group, l’azienda autoctona chiuderà i battenti il 1°dicembre. Per i 46 lavoratori: una lettera di trasferimento che li disloca in varie zone d’Italia.

Alla manifestazione di protesta, fra allegri fischietti e pacchi di pasta acquistati simbolicamente dai lavoratori, il primo cittadino Virginio Merola e l’assessore provinciale Graziano Prantoni: “Siamo molto preoccupati – dice quest’ultimo – Corticella è un patrimonio da salvare. Rappresenta una produzione tipica di questo territorio”. “Stiamo lavorando in una situazione difficile – ammette – perché sia data a questi lavoratori la possibilità di continuare a lavorare a Bologna. Le istituzioni sono tutte impegnate per raggiungere questo obbiettivo. Complicato, ma speriamo di farcela”. Il sindaco, deciso, non è da meno: “Bisogna esplorare tutte le strade perché la produzione della pasta Corticella resti in città. Stiamo uniti su questo obiettivo: rifiuto della delocalizzazione e confronto sul merito per capire quali sono le strategie di rilancio”.

Dalla Provincia arriva la notizia di un nuovo tavolo di salvataggio fra le parti, il 9 novembre, nel quale si cercherà di trovare una soluzione alla chiusura imminente. Probabilmente più produttivo dei precedenti, l’ultimo dei quali nemmeno un mese fa. “Se la crisi c’è, ci sono i mezzi per risolverla. Ma se non c’è, la crisi non te la devi inventare per speculare sull’area”, denuncia il rappresentante provinciale della Flai Cgil Vito Rorro.

In ballo c’è la vendita del terreno, che a quanto ha dichiarato Angelo Mastrolia, amministratore delegato del gruppo, dovrebbe consentire la costruzione di una nuovo sito nella cintura bolognese. Ma per gli operai ormai è evidente che non è così: “se avessero davvero intenzione di riaprire un sito, ci metterebbero in mobilità: cosa rimetti in piedi dopo cinque anni di contatti interrotti?”.

Di fatto, “il trasferimento è un licenziamento mascherato – spiega Rorro – perché la ditta sa perfettamente che sono condizioni inaccettabili. Solo che come dimissionari non avrebbero diritto a nessun tipo di ammortizzazione”. In questa storia, sono compatti gli operai attorno al sindacato: “Il nuovo stabilimento è come il contratto di Berlusconi: una mera intenzione. Era già stato promesso nel 2007 – denuncia la Flai Cgil – per ora invece di concreto c’è solo la chiusura del pastificio e il trasferimento degli operai a chilometri di distanza”. Lodi, Eboli, Arezzo, Pozzuoli, Cremona. Queste alcune delle destinazioni dei trasferimenti annunciati ai lavoratori tramite raccomandata a settembre. In barba a ciò che per queste persone e per le loro famiglie può significare. Il tutto, per una riqualificazione. “E poi sembra che siamo noi gli stupidi e gli ingrati, che non cogliamo al volo questa occasione – protesta un’operaia – ma si può gestire così la vita degli altri?”. E un altro, deluso, ma con tono interrogativo, mormora: “E’ impossibile che siamo caduti così in basso. Ce la giocavamo con la Barilla”.

I trasferimenti sono giustificati dall’amministratore delegato, che aveva dichiarato al Fatto Quotidiano.it: “Io non posso utilizzare i fondi dello stato, quando l’azienda il lavoro lo ha”. Ma l’assessore provinciale, che ha seguito la vicenda dall’inizio, ribatte: “Bisognerebbe verificare se di lavoro ce n’è, perché mi risulta che ci siano situazioni di sofferenza nelle altri sedi del gruppo”. E infatti, a solidarizzare con i lavoratori di via Corticella, ci sono gli operai di San Sepolcro, stabilimento Buitoni acquistato dalla Newlat nel 2008: “siamo molto preoccupati. Noi ancora non siamo riusciti a ottenere un piano industriale, e la situazione di Bologna unitamente a Bari, ci allarma”. Sei mesi fa, il sito in provincia del capoluogo pugliese ha chiuso i battenti “dalla sera alla mattina, lasciando a casa i lavoratori”, mentre altri sono già in cassa integrazione, raccontano gli aretini: “stiamo parlando di un gruppo alimentare che è il quinto in Italia per produzione, con 1100 dipendenti in tutta Italia, e che non è all’altezza delle responsabilità industriali che dovrebbe gestire”.

Non ci stanno queste persone con i camici bianchi e fra le mani il prodotto più amato d’Italia a farsi trasferire “come pacchetti postali”, e annunciano che intraprenderanno le vie legali: “impugneremo i trasferimenti e l’intimazione alle ferie coatte che i lavoratori hanno subito a novembre, le lettere verranno spedite oggi stesso. La prossima settimana invece presenteremo ricorso per accordi disattesi, fra i quali proprio la costruzione di un nuovo stabilimento – chiarisce Rorro – visto che la cosa che viene usata per addolcire la pillola”.

Ma è una pillola avvelenata che fa ancora più arrabbiare perché nasconde un interesse che con la produzione alimentare ha poco a che vedere: “La verità è che vogliono vendere il sito”. A questo il sindaco Merola risponde con fermezza: “non c’è nessuna disponibilità da parte nostra di autorizzare la riqualificazione dell’area. Il piano urbanistico prevede il mantenimento delle attività produttive . E non siamo disponibili a modificarlo”. Anche perché “in questo caso si tratterebbe di un’operazione di valorizzazione immobiliare che non ha una destinazione produttiva ma di altro tipo”.

La speculazione sull’area pare essere l’unica spiegazione, perché la prima azienda di produzione alimentare di Bologna non chiude per difetto di produzione: “l’azienda ha la piena disponibilità di continuare la su attività industriale”, testimoniano i lavoratori. Non conviene a nessuno, in città, questa delocalizzazione: “si potranno ancora mantenere i rapporti con le Coop, principali committenti? – si chiede il sindacato – La Coop è radicata nel territorio, la sua prerogativa è questa. Non andrà certo ad acquistare la pasta a Eboli”. Già, perché Corticella, significa pasta Coop. E forse è anche per questo che le istituzioni la difendono con forza.

“Dal punto di vista della sua collocazione è in un punto strategico anche per la fornitura della materia prima, per cui non si può disperdere questo patrimonio”, dichiara la Provincia, “come con la Magli, cerchiamo di mettere in campo tutti gli strumenti per il mantenimento dei poli produttivi perché questo territorio non si impoverisca. Qui siamo in una realtà positiva, è un marchio importante che ha clienti forti, che si assicurano se la produzione rimane qui”.

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