Un recente studio commissionato da Mediaset all’Istituto italiano per l’industria culturale e presentato nelle scorse settimane riferisce che la televisione sarebbe ancora il leader indiscusso del mondo mediatico in Italia e nel resto del mondo: un “super media” che godrebbe, “a livello planetario, di una ‘audience’ potenziale di 3,7 miliardi di persone e nel 2010 l’ascolto medio è stato di 3 ore e 10 minuti, ovvero 190 minuti al giorno, con un incremento di 6 minuti negli ultimi 5 anni (calcolato su un’audience di 3,3 miliardi di telespettatori)”.

La televisione – si riferisce nello stesso studio – nel 2010, in Italia, “è stata fruita quotidianamente dall’84% dell’intera popolazione, a fronte del 59% che ascolta la radio o del 39% che legge un quotidiano tutti i giorni; solo un 26% della popolazione italiana usa internet tutti i giorni”.

9,8 milioni di italiano sarebbero stati, ogni minuto, incollati davanti alla Tv.

L’Italia, come se non bastasse, è – rivela ancora lo studio commissionato da Mediaset – “il Paese, tra i “big 5” europei, nel quale il “declino” della televisione “classica” – così intendendo i maggiori canali analogici (Rai, Mediaset, La7) – sia assolutamente più lento che altrove, a conferma di un’offerta televisiva che appare evidentemente ben ricca al telespettatore: se ancora nel 2001, i maggiori canali televisivi italiani assorbivano un 91% dell’intero ascolto nazionale, questo ascolto cumulato era ancora molto alto nel 2010, essendo a quota 76%.”.

Sono numeri ed indicazioni apparentemente incompatibili con lo stato di dissesto e di quasi-bancarotta nel quale versa la Rai, la Tv di Stato e del quale parla Carlo Tecce in un bel pezzo su Il Fatto di oggi.

Nonostante l’attuale sistema duale che le consente – o dovrebbe consentirle – di raccogliere una montagna di soldi sia dal pagamento della tassa sul canone sia dagli investitori pubblicitari, l’azienda di Viale Mazzini è, evidentemente, incapace di approfittare delle straordinarie opportunità offertele da un mercato che – se lo studio commissionato da Mediaset dice il vero – è straordinariamente vivo e florido.

Siamo di fronte a una straordinaria anomalia: come se in un Paese nel quale si beva solo vino, la cantina di Stato rischiasse il fallimento.

Non bastano, come scrive Tecce, i due miliardi e mezzo di euro raccolti tra canone e pubblicità né i fidi bancari da quasi 700 milioni di euro.

Una tv con 350 milioni di euro di debiti nel Paese della Tv.

E pensare che 350 milioni di euro è proprio la somma alla quale nell’agosto del 2009, l’allora direttore generale della Rai, Prof. Mauro Masi si permise il lusso di rinunciare, rifiutando di “svendere” – a suo dire – a Sky i contenuti Rai, contenuti che, tuttavia, sono evidentemente rimasti poi pressoché invenduti e niente affatto sfruttati economicamente se le condizioni dell’azienda televisiva di Stato è quella oggi sotto gli occhi di tutti.

Una Rai povera di informazione e con le casse vuote in un Paese tele-centrico: è questo il lascito del regime Berlusconi al Paese.

Difficile, d’altra parte, credere che potesse finire diversamente: l’unico azionista della Rai (eccezione fatta per il simbolico 0.04% nelle mani di Siae) è il Ministero dell’Economia e, quindi, Berlusconi, l’unico cliente della Rai è il Ministero dello Sviluppo economico e, quindi, ancora una volta Berlusconi (che, naturalmente continua a ritardare il pagamento alla Rai di quanto le dovrebbe) e la “maggioranza” del CdA di Viale Mazzini è scelta dalla maggioranza di Governo e, quindi, da Silvio Berlusconi che è, sfortunatamente, anche il proprietario dell’unico polo televisivo italiano concorrente della Tv di Stato.

Non c’è ragione, in un contesto di questo genere, per la quale i conti della Tv di Stato dovrebbero essere diversi da quelli che sono.

Non serve solo cambiare Governo, serve anche – e anzi soprattutto – risolvere il problema del conflitto di interessi e quello della governance della Tv di Stato, sempre che una sola televisione pubblica sia ancora la soluzione migliore per garantire un servizio pubblico di informazione di qualità.

Serve una Rai il cui management – di nomina politica o meno – non rifletta la maggioranza di governo, serve una Rai al cui management venga affidato l’obiettivo di guidare l’azienda in maniera competitiva rispetto ai concorrenti senza perciò tradire i compiti di servizio pubblico e serve, soprattutto, una Rai che possa essere – davvero – chiamata a rispondere per la sistematica attività di dilapidazione delle risorse pubbliche e per il mancato adempimento agli obblighi su di essa gravanti nella sua qualità di concessionaria esclusiva del servizio pubblico televisivo.

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