La vicenda di Steve Jobs è interessante anche per riflettere su quanto sia facile fare impresa in alcuni Paesi e molto meno in altri. L’ultimo Rapporto della Banca mondiale “Doing Business” ci dice che fare impresa in Italia è molto difficileL’Italia è all’80esimo posto della classifica internazionale. Penultimo tra gli stati membri della Ue, davanti solo alla Grecia, appena meglio dell’Albania e in arretramento di quattro posizioni rispetto al 2009. Siamo al di sotto perfino del Ruanda (58°) e della Bulgaria, stabile al 51°.

Ma che cosa significa poter fare impresa secondo i criteri dell’International finance corporation (Ifc) (sezione della World Bank che opera col settore privato) autore del rapporto? E perché l’Italia è messa così male, a distanza preoccupante dai concorrenti diretti come Germania e Francia, rispettivamente al 22° e al 26° posto, per non parlare dei paesi in testa alla classifica Singapore, Hong Kong e Nuova Zelanda?

In un confronto internazionale, avviare, gestire e chiudere un’attività economica nel nostro paese richiede un enorme sforzo nonostante stiamo parlando di uno dei primi paesi manifatturieri al mondo e secondo esportatore europeo. Gli elementi microeconomici esaminati dall’Ifc riguardano gli aspetti procedurali della costituzione di un’impresa come costi dell’avviamento e tempi; gli iter per l’ottenimento delle licenze edilizie; la facilità o meno di registrazione della proprietà; l’accesso al credito; le modalità per il pagamento delle imposte e la loro incidenza sul reddito prodotto; il rispetto dei contratti; la capacità di commerciare con l’estero; l’efficienza delle norme che regolano la cessazione di un’attività; la flessibilità del mercato del lavoro.

L’Italia non ha fatto grandi progressi rispetto al rapporto precedente, anche se si è evitato il “microimmobilismo” grazie all’istituzione del registro telematico delle imprese.

La crisi è la spiegazione”, potrebbe dire qualcuno. La crisi ha stravolto l’agenda delle priorità politiche. Ma allora come mai in aree come l’Europa dell’Est e l’Asia Centrale in testa, la crisi è stata l’occasione per accelerare quelle riforme capaci di rendere la vita meno dura soprattutto alle Pmi, le più esposte alla terribile mutazione causata dal crollo della finanza nel 2007-2008.

L’85% delle economie di questa zona, tra il 2009 e il 2010 ha realizzato almeno una delle riforme elencate nel rapporto. La difficoltà o la facilità di avviare e condurre un’attività economica, il rafforzamento della trasparenza e dei diritti di proprietà, il miglioramento dell’efficienza delle dispute commerciali o delle procedure d’insolvenza, possono influenzare il modo in cui le aziende reagiscono alla crisi e riescono a cogliere le nuove opportunità di crescita.

Secondo il dettaglio delle schede paese, ciascuna divisa in 9 categorie microeconomiche, in Italia è mediamente difficile aprire un’attività (68° posto nella classifica generale), proteggere il proprio investimento (59°). È molto difficile (92°) ottenere i permessi di costruzione, accedere ai finanziamenti (89°). Molto gravoso è pagare le tasse (128° posto in classifica) sia per l’incidenza complessiva sull’utile d’impresa, misurata dall’Ifc al 68,6% del reddito prodotto, sia per il tempo da dedicare ai relativi adempimenti: in media 285 ore all’anno contro, ad esempio, le 135 ore della Danimarca. L’unica nota di merito, alla fine, riguarda la relativa facilità con la quale ormai si può chiudere un’impresa: un 30° posto guadagnato grazie alla riforma complessiva delle procedure fallimentari, introdotta tra il 2006 e il 2007.

Osserva Sylvia Solf, economista che ha condotto lo studio della Icf: «Il maggior freno all’attività economica in Italia resta la burocrazia». Una burocrazia ostica come quella cinese, visto che siamo al paradosso di una vicinanza nella classifica Doing Business? L’economista invita a leggere oltre i numerini della hit parade e giura che quella cinese, di burocrazia, è ancora più complessa di quella italiana. Si consolino, allora, i nostri imprenditori. E attenuino le continue lamentele sul fare business in Cina, mercato dove tutti vorrebbero essere a vendere e/o produrre. Se sopravvivono in Italia, la Cina non può più far paura, almeno stando alla Banca mondiale.

Perché alla fine, ed è questa la morale del rapporto Ifc, le piccole riforme, spesso meglio di altre, permettono la creazione di nuovi posti di lavoro e la salvaguardia di quelli esistenti. Ma cosa ha fatto l’Italia in questi anni per rendere meno difficile l’attività degli imprenditori?

Articolo Precedente

Istat, la produzione industriale di
autovetture cresciuta nel mese di agosto

next
Articolo Successivo

Le ragioni di Emma Marcegaglia
E il Pil in continuo ribasso

next