Vendere, “valorizzare”, fare cassa. Il leitmotiv di Giulio Tremonti è ormai evidente e consolidato. Inchiodato al cospetto di una montagna debitoria da oltre 1.900 miliardi di euro, il titolare dell’economia ha ormai capito che l’unica possibile strategia di rientro passa necessariamente dalla dismissione del patrimonio pubblico. Una risorsa potenzialmente enorme dalla quale si dovrà attingere più o meno copiosamente a seconda delle necessità. A sancire definitivamente l’ultima presa di coscienza del ministro ci ha pensato ieri un seminario ad hoc organizzato per l’occasione dallo stesso dicastero finanziario (il documento è scaricabile qui). L’Italia, hanno spiegato i relatori, può contare su un patrimonio immobiliare da 500 miliardi “di cui il 5-10% immediatamente vendibile”. Come a dire, insomma, che basterebbe mettere sul mercato una fetta relativamente contenuta degli assets a disposizione per ottenere un istantaneo beneficio contabile. Eppure, quella raccontata intuitivamente dai numeri non sembra proprio una realtà così lineare. Anzi.

“Il seminario di ieri è stato utile a livello conoscitivo visto che per la prima volta sono stati resi noti i numeri del patrimonio pubblico. Ma guardando agli aspetti concreti siamo ancora al pour parler”, spiega Carlo Stagnaro, Direttore Ricerche presso l’Istituto Bruno Leoni, uno dei principali centri studi di orientamento liberale. Il ministero, è emerso nel seminario, penserebbe a una prima cessione sul comparto immobiliare per 25-30 miliardi cui si aggiungerebbe la vendita dei diritti di emissione CO2 per altri 10 miliardi. A destare perplessità, però, ci sono proprio le procedure di dismissione che, nonostante tutto, non appaiono poi così semplici. “Il valore degli immobile pubblici controllati direttamente dal governo centrale ammonta ad appena 50 miliardi – commenta Stagnaro – . Tutto il resto è controllato dagli enti locali”.

Insomma, nelle mani del governo, per il momento, c’è solo una piccola frazione del real estate pubblico, il famoso “5-10% immediatamente vendibile” di cui si parlava ieri. Ma anche qui, in realtà, ci sarebbe da discutere. Facendo una semplice verifica, infatti, si scopre che questi 50 miliardi in mattone non sono altro che gli immobili poco o per nulla utilizzati. Insomma, “quelli tipicamente in peggiori condizioni”, che una volta messi in vendita difficilmente andrebbero a ruba. “Volendo si possono anche vendere le caserme ma prima occorre fare delle valutazioni, trovare potenziali acquirenti, insomma, andare incontro a un processo molto lungo. Potrebbero volerci dai sei mesi ai due anni. Ovvero molto più dell’aspettativa di vita del governo”.

Per ora, dunque, il progetto non convince. Servono maggiori dettagli, piani precisi, modalità operative. L’unica certezza, ad oggi, è che l’ondata di privatizzazioni è ormai inevitabile. Lo hanno chiarito nella loro ultima missiva al governo niente meno che Jean-Claude Trichet e Mario Draghi, rispettivamente governatore uscente ed entrante della Banca Centrale Europea, la stessa banca centrale che a partire da agosto è venuta in soccorso dell’Italia sostenendo artificialmente la domanda di mercato dei titoli di Stato targati Roma i cui interessi, anche a causa di una massiccia speculazione al ribasso, erano ormai sul punto di esplodere. E siccome la Bce non può garantire il suo sostegno all’infinito ecco che il risanamento dei conti diviene all’istante l’unica strategia possibile per abbandonare l’attuale impasse. Tanto più che, dopo aver parzialmente frenato la corsa al rialzo del deficit sui Btp, la stessa banca centrale Ue può legittimamente sentirsi in dovere di commissariare almeno in parte la politica economica del governo. Cosa che, nel caso qualcuno non se ne fosse accorto, ha per altro già fatto.

Il piano di privatizzazioni dovrebbe suonare familiare allo stesso Mario Draghi, uno che, nella veste di direttore generale del Tesoro, può vantarsi di essere salito a bordo del famoso (o famigerato, a seconda dei punti di vista) panfilo Britannia 19 anni fa quando, di fronte alla prima grande crisi debitoria del Paese, l’Italia offrì agli investitori stranieri l’accesso alle proprietà dell’Eni e dell’Iri. Tremonti, si è scoperto da poco, ha già iniziato a battere la pista straniera chiamando in causa i più grandi titolari di liquidità da investire del mondo: i cinesi. All’offerta de     i nostri titoli Pechino ha risposto negativamente chiedendo, al contrario, di poter entrare nelle quote azionarie delle aziende strategiche a partecipazione statale come Eni ed Enel. Ma questa è una richiesta difficile da soddisfare. Almeno per il momento.

“Il sistema più semplice per fare cassa e rassicurare i mercati – osserva ancora Stagnaro – è la cessione delle partecipazioni statali nelle compagnie quotate come Eni, Enel e Finmeccanica”. Peccato però, osserva ancora, che ci siano in proposito evidenti resistenze. “Da un lato quelle ideologiche derivanti dal fatto che le privatizzazioni non incontrano il consenso dei cittadini, almeno non nel breve periodo, dall’altro quelle politiche, associate al potere che deriva dal controllo delle risorse statali. Cedendo gli assets pubblici cedi anche la possibilità di nominare gli amici e gli amici degli amici nei consigli direttivi delle compagnie più importanti, oppure di premiare con appositi incarichi persone vicine al tuo partito. Basta guardare a quanto accaduto con Finmeccanica”.

di Matteo Cavallito e Mauro Meggiolaro

Articolo Precedente

Fate un corso di economia per i ministri!

next
Articolo Successivo

Atene taglia 30mila impiegati statali
Ma il paese resta ancora in bilico

next