“Non sono venuto qui per raccogliere applausi, ma per dire la verità”. Così ha iniziato il suo discorso all’Assemblea Generale dell’Onu il primo ministro israeliano Benyamin Netanyahu, circa un’ora dopo l’intervento di Abu Mazen, presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese. Se a qualcosa è servito questo duello a breve distanza tra i due principali contendenti di una scena politica quantomai agitata, è stato proprio a marcare le differenze e le distanze.

La prima, essenziale, è proprio sul contesto. Abu Mazen ha cercato di riportare la questione del conflitto israelo-palestinese nella cornice dell’Onu, dove, in effetti, è iniziato tutto, con il piano di partizione della Palestina storica, nel 1947. Netanyahu ha ripetuto, invece, che “lo stato palestinese non arriverà con una risoluzione dell’Onu”. Lo stesso argomento usato il giorno prima dal presidente statunitense Barack Obama, quando ha detto che “dopo tutto, sono israeliani e palestinesi che devono vivere fianco a fianco”.

Abu Mazen ha fatto un discorso duro, deciso, senza sconti diplomatici e che di certo darà molto fastidio alle cancellerie europee, fino all’ultimo minuto impegnate nel cercare di trovare, finora invano, una mediazione. Netanyahu non è stato da meno: “Israele è pronta ad avere uno stato palestinese nella West Bank, ma non siamo pronti ad avere un’altra Gaza”. Secondo il premier israeliano, ai palestinesi sono state consegnate “le chiavi di Gaza”, le cui porte però rimangono ben serrate dall’embargo israeliano.

Esponendo tutti gli argomenti della destra israeliana, Netanyahu – che conosce bene l’Onu per essere stato ambasciatore di Israele nel Palazzo di vetro, circa 30 anni fa – ha riproposto alla platea le ragioni teologiche e le radici bibliche della presenza ebraica in Palestina, presentandosi, in quanto premier israeliano, come il portavoce di generazioni di ebrei dispersi in tutto il mondo e perseguitati, “dall’Ucraina dei pogroms, alle battaglie nel ghetto di Varsavia circondato dai nazisti”.

In uno dei passaggi più difficili del suo discorso, Netanyahu ha risposto alle accuse di Abu Mazen sugli insediamenti dei coloni in territorio palestinese: “Gli insediamenti non sono la causa del conflitto – ha detto Bibi – Sono una conseguenza del conflitto, che è iniziato 64 anni fa, ben prima che un solo colono fosse nei territori palestinesi”. Gli insediamenti – illegali per la legge internazionale – sono però, per i palestinesi, il principale ostacolo alla ripresa dei negoziati.

Il discorso di Netanyahu si è concluso con un’offerta non nuova, che però avviene in un nuovo contesto mediorientale e in un contesto in cui anche Obama, nonostante il suo discorso giudicato quasi all’unanimità come il più filoisraeliano possibile, ha espresso la propria “frustrazione” per la mancanza di progressi.

Il premier israeliano ha ripetuto che la “porta per i negoziati è sempre stata aperta” ma che “il presidente Abbas” non ha mai voluto accogliere l’invito a negoziare senza precondizioni. “In questi giorni sono state presentate delle idee americane – ha detto Netanyahu verso le ultime battute del suo intervento – In quelle proposte ci sono alcune cose che non mi piacciono. In quelle proposte ci sono alcune cose che di sicuro non piacciono ai palestinesi. Ma quello che dico è smettiamo di negoziare sui negoziati e negoziamo sulle questioni concrete”. «Siamo tutti figli di Abramo – ha aggiunto ancora Netanyahu – Noi lo chiamiamo Avraham, voi lo chiamate Ibrahim. Ho difeso Israele sui campi di battaglia; il presidente Abbas ha dedicato la sua vita alla causa del popolo palestinese. Vogliamo far sì che i nostri figli ricordino questi momenti come quelli in cui siamo riusciti a far finire il conflitto?».

“Siamo qui ora, nella stessa città – ha detto Netanyahu rivolgendosi direttamente ad Abbas – Nello stesso palazzo. Perché non ci incontriamo oggi stesso?”. E’ un invito provocatorio, per i palestinesi. Perché la differenza di fondo rimane che per Netanyahu, e per la destra israeliana, “i palestinesi devono prima fare la pace con Israele e poi potranno avere il loro stato”, mentre per l’Anp avere il riconoscimento come stato è un modo per avviare negoziati che, almeno formalmente, siano su un piano di parità: da stato a stato e non da stato a «entità», com’è ufficialmente riconosciuta l’Anp oggi all’Onu. Oggi, ma forse non per molto tempo ancora.

Niente di nuovo, dunque? Non è detto. Passato il braccio di ferro diplomatico, che probabilmente durerà fino a quando non ci sarà il voto nell’Assemblea Generale sulla richiesta palestinese di riconoscimento se – com’è probabile con il veto statunitense – sarà respinta dal Consiglio di sicurezza, la principale conseguenza dell’iniziativa dell’Anp sarà proprio quella di aver smosso le acque stagnanti di uno status quo ormai insostenibile per tutti.

di Joseph Zarlingo

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