Tra i ragionamenti che rimbalzano sulle prime pagine dei quotidiani, della crisi economica riesplosa con grande virulenza questo agosto (mese abbastanza a rischio, a quanto pare), ce n’è uno che, semplificando, può essere così riassunto:

(1) Quello che è avvenuto mostra che  i mercati alle volte falliscono.
(2) I governi e la politica falliscono più gravemente dei mercati.
(3) Dunque non possiamo sperare (pretendere?) che i governi, che questa volta come tante altre non hanno dimostrato le capacità di “salvarci” dalla crisi economica, potranno prendere in mano la situazione. L’unica possibilità è che i mercati, auto-regolandosi (magari una volta “liberati” dalla residua intromissione dello Stato), possano in qualche modo imporre agli Stati le politiche economiche “giuste” che siano in grado di ricondurci verso la retta via dell’ “equilibrio”.

A mio avviso la conclusione (3) è sbagliata prima di tutto in quanto sono sbagliate le premesse (1,2). Innanzitutto: in che senso i meccanismi di mercato falliscono? Falliscono rispetto a cosa? Quello che succede nei periodi di crisi economica, e in modo speculare nei periodi di boom economico, dal punto di vista, ad esempio, dei prezzi delle azioni, sono delle grandi fluttuazioni: le crisi rappresentano delle grandi variazioni negative dei prezzi. Dunque, la domanda è: queste fluttuazioni così grandi sono degli eventi davvero così improbabili come i modelli economici predicono?

I prezzi non si possono predire, ma le loro fluttuazioni possono essere descritte matematicamente. Il punto critico riguarda il tipo di descrizione statistica che si assume (o si misura) nei dati. Un’assunzione fondamentale, ipotizzata da un matematico francese, Louis Bachelier, agli inizi del secolo scorso, e usata, in modo più sofisticato, dai modelli finanziari correnti, è che le variazioni dei prezzi siano statisticamente indipendenti: quello che succede oggi è indipendente da quello che è successo ieri, e dunque quello che succederà domani è indipendente da quello che è successo oggi; inoltre quello che fa un agente di borsa è indipendente da quello che fa un altro.

Questo tipo di schema teorico porta però a delle conclusioni paradossali: ad esempio le variazioni dei prezzi così grandi, come quelle a cui stiamo assistendo in questi giorni, ma che abbiamo già visto ripetersi tante altre volte nel recente e prossimo passato (il martedì nero del 1987, la crisi delle economie asiatiche del 1997, ecc.), dovrebbero avvenire, secondo questi modelli, un volta ogni centinaia di migliaia di anni o più. Gli economisti ortodossi invocano allora la presenza di calamità “naturali” che fanno sballare tutte le predizioni, o che, più prosaicamente, fanno accadere eventi improbabili a ripetizione. Ma forse, più semplicemente, come ha discusso Benoit Mandelbort, uno dei matematici e pensatori più influenti ed importanti del 900, nel suo libro “Il disordine dei mercati” le assunzioni alla base dei modelli ortodossi sono completamente sbagliate e i cambiamenti repentini ed estremi dei prezzi sono la norma nei mercati finanziari e non delle aberrazioni che possono essere ignorate.

Perché dunque vi sono variazioni dei prezzi (o fluttuazioni) così grandi (Nassim Nicholas Taleb, le chiama “Il cigno nero”)? Avvengono perché ci sono degli eventi correlati, ovvero perché tanti agenti di borsa fanno contemporaneamente la stessa cosa: vendono (o comprano) le stesse azioni. Perché quello che è avvenuto nel passato influenza quello che succede nel presente e che avverrà nel futuro. In altre parole, appaiono fenomeni coerenti su grandi scale temporali e spaziali: in termini tecnici si formano correlazioni a lunga portata. La presenza di queste correlazioni non è contemplata dai modelli economici basati sull’indipendenza degli eventi (ovvero statistica Gaussiana ).

La descrizione ortodossa delle fluttuazioni dei prezzi, dunque, non solo non è  capace di prevedere, ma neppure di interpretare, quello che succede nella realtà. Ovviamente, non è la realtà a fallire, quanto piuttosto la pretesa che i mercati siano capaci di  auto-regolarsi e siano caratterizzati da piccole e indipendenti fluttuazioni. In realtà dunque il punto (1) diventa: (1a) le fluttuazioni tipiche dei mercati finanziari sono grandi (o selvagge).

Non sono perciò i mercati che falliscono rispetto a un andamento “teorico” che prevede l’assenza di grandi variazioni che sono invece intrinseche ai mercati finanziari. Sono piuttosto i modelli teorici a essere basati su assunzioni (o dogmi) irrealistici rispetto alla realtà. E sono i mercati stessi portatori di situazioni d’instabilità; l’idea che i mercati tendano ad auto-regolarsi raggiungendo una situazione di “equilibrio” è contraddetta infatti dalla semplice analisi delle serie temporali delle variazioni dei prezzi. Ed è dunque semplicemente irrealistico pensare che i mercati costringano i politici a “comportarsi bene”. Serve piuttosto la buona politica, quella che è capace di pensare al bene comune, che guarda lontano nel tempo e che per queste ragioni ha consenso, per iniziare a pensare  a come regolare una roulette russa globale che ci sta rapidamente portando verso una catastrofe annunciata: non mi sembra ci sia un’altra strada possibile.

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