Uno dei pomeriggi più intensi degli ultimi mesi  l’ho trascorso con mio figlio e due miei amici nell’hinterland di Torino, intrufolandomi all’interno di un’area industriale abbandonata, dove sapevamo – per averlo visto su Google Earth – essere nato e cresciuto una specie di bosco. Uno spettacolo incantevole. Dove una volta c’erano i macchinari, ora la natura sta riprendendosi il suo spazio, spaccando il cemento, protendendosi verso il cielo oltre le strutture ossidate e scheletriche della fabbrica che non c’è più.

Alberi di tutti i tipi, sia autoctoni, sia alloctoni, grazie ai semi sparpagliati dal vento e persino un’area umida con tanto di canneto e girini.

In mezzo a questo caos di paleoindustriale e neonatura una comunità di zingari e altre persone non identificate: la sensazione di essere proiettati all’interno del film “I guerrieri della palude silenziosa”.

Di aree come questa, riconquistate dalla natura, ce ne sono oramai davvero ben poche: l’avidità delle amministrazioni comunali di accaparrarsi gli oneri di urbanizzazione e magari anche accordi più o meno leciti con le imprese di costruzione, fanno sì che dappertutto sorgano palazzi e non-luoghi.

Anche questa area che abbiamo visitato e fotografato non resisterà certo a lungo al cancro della speculazione. Rimarrà nella nostra memoria e rimarrà la nostra testimonianza.

Ma non fa nulla: l’importante è vedere che la natura vive e sopravvive. L’importante è che noi, camminando in città senza avere la testa nelle nuvole, ci accorgiamo di quella pianta di tarassaco a fianco dell’asfalto, oppure di quella saponaria lungo il muro, o ancora di quel fico che magicamente si fa largo sotto una grata lungo un marciapiede.

Tutto questo ci consolerà. Nonostante le nostre nefandezze, nonostante la morte che cospargiamo, la natura vive. E vivrà dopo di noi.

P.S. ho scritto questo post prima che fosse pubblicato “Ambientalisti, che voglia di catastrofe”. Di filosofi come Pascal Bruckner, che vivono solo di testa e non di pancia, se ne potrebbe francamente fare a meno.

(Foto di Jacopo Balocco – clicca qui per ingrandire)

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