Michel Platini fabbricava giocate da illusionista. Oggi, da presidente Uefa, fa soprattutto l’illuso. Se non addirittura il colluso. E quasi sorprende per l’ostinata ingenuità delle sue tesi. Insiste nel sognare una dimensione proletaria e democratica per un movimento ormai da decenni totalmente stravolto dal business. E dalla brutale arroganza di chi ne fa quello che vuole. Fa tenerezza quando sostiene che “l’identità di un club dovrebbe essere più radicata nel suo paese, dal presidente ai giocatori”.

Duole constatarlo, ma questo Platini inutilmente donchisciottesco stride con quello divino del tempo che fu. Non esiste relazione tra il genialoide che pennellava e il governante che scarabocchia. Di questo passo le attuali croste scoloriranno la memoria degli allora capolavori. La verità è una sola, e lui la conosce bene. La verità è che il pallone rotola a rotta di collo verso il deserto. Quello vero, quello delle emozioni. E non c’è nulla e nessuno che possa impedirlo. Sono gli arabi i sovrani assoluti. Lo saranno ulteriormente nelle stagioni a venire. Di calcio non capiscono un tubo? Inezie. E poi siamo certi della superiore competenza dei paperoni europei?

Nel 2022 celebreranno il loro trionfo col Mondiale in Qatar. Ma per quella data avranno già fatto razzia comprando tutto il comprabile, club, giocatori, diritti televisivi. Il pioniere fu Mohamed Al Fayed, era il ’97 quando s’impossessò del Fulham. Oggi fanno notizia gli sfrontati investimenti del “parigino” Al Thani, quello che ha soffiato Leonardo a Moratti. Una sentenza più che una tendenza. Scolpita in allegria da Sepp Blatter, l’ineffabile orchestratore delle dinamiche più perverse.

Platini se ne faccia una ragione. E rilegga Galeano per afferrare il finale della storia. In “Splendori e miserie” l’uruguyano profeticamente annotava: “Siete mai entrati in uno stadio vuoto? Fate la prova, entrate in uno stadio vuoto ed ascoltate. Non c’è niente di meno vuoto di uno stadio vuoto. Il Maracanà continua a piangere per la sconfitta brasiliana del Mondiale del ’50. Parla in catalano il cemento del Campo Nou e in euskera conversano le gradinate del San Mamès. Lo stadio del re Fahd, in Arabia Saudita, invece, ha palchi in marmo ed oro e tribune ricoperte di tappeti, ma non possiede una memoria. E non ha granché da dire”. Ecco in quale lugubre direzione marciamo. Verso cattedrali mute. Verso un calcio che del ricordo dei ricami di Platini non saprà più che farsene.