Ogni anno migliaia di giovani vengono a vivere a Bologna abbindolati dalle solite chiacchiere anni settanta della Bologna di una volta e del fermento culturale. Tutto vero, ma una volta. Sicuramente c’è più fermento che a Vibo Valentia, Manfredonia o Fratta Polesine, è innegabile, ma per chi vuole fare dell’ipotetica arte ed emergere questo è il posto sbagliato. E’ importante essere chiari con i giovani che non si facciano troppe illusioni.
Immaginiamo che uno voglia fare della musica e voglia campare con essa: impossibile.
Troppa offerta.
Qui a Bologna anche il più sfigato dei geometri suona qualcosa e dopo settimane, mesi anni di prove, prima o poi esige di esibirsi davanti a qualcuno/qualcosa.
A questo punto sorge la domanda: “Dove suono?”
Di solito nella bend c’è uno che si prenda la briga di organizzare le date e scandaglia bar e locali “che fanno suonare” e cerca un ingaggio.
A Bologna se uno chiede di suonare a un baretto o a un localino aristofric da aperitivo, il gestore fa un po’ di scena, chiede il cidi per accertarsi che non fate dell’evi metal, poi vi ingaggia per suonare davanti a sette o otto persone ubriache e agli amici (se ne avete molti, meglio).
Alla domanda “Quanto mi pagate?” di solito il gestore del locale tentenna (per finta), vi fa un gran pippone sui costi di gestione, sulla CRISI, sul fatto che ha tanta gente che vuole suonare… insomma, tante scuse per dirvi che non vi paga niente e ringraziatelo che vi fa suonare.
Se è buono vi offre una birra a testa, se è stronzo vi fa lo sconto su quello che avete consumato.
Questo è l’iter per chi è agli inizi e si deve accontentare di sti bar piangimiseria, inutile bussare alle porte di locali più affermati, vi direbbero “Chi cazzo sei? Vattene che se no chiamiamo il buttafuori che ti fa una faccia così”.
Per chi ha resistito a questo mobbing e grazie alle proprie forze e a endovene di autostima è riuscito a farsi conoscere un po’ di più, la possibilità di suonare in posticini più fighi che non siano i soliti bar diventa all’improvviso una realtà. Suonare su un palco attrezzatissimo, fare il saundcec alle 19 che poi inizia alle 21 e lo si fa in maniera raffazzonata, parlare in tecnichese col fonico con la canna in mano, salutare la gente del giro andergraund dopolavorista è già una soddisfazione.
E poi c’è il compenso. E si. Qui pagano, mica come quei tirchi indigenti dei bar del centro.
Fondamentale stabilire da subito la cifra e il gioco è fatto.
Poi ci sono le consumazioni, max 2/3 a persona, se suonate in una bend coi fiati e siete in un casino, una a persona e faccia schifata quando ve le consegnano.
Seguono firme di liberatorie ENPALS per affermare il falso e dire che non percepite alcun compenso, compilazione del Borderò se qualcuno ha osato iscriversi alla SIAE e poi basta. Si attende.
Arriva la gente che è lì per caso, arrivano gli abituè, arrivano gli amici che vi vogliono tanto bene e che di solito vengono costretti a fare “la tessera del locale”, i niubbi, la gioia dei locali, quelli che aspettano pazientemente l’esibizione consumando bevande al ritmo di 20 euro all’ora.
E finalmente tocca a voi, salite sul palco, vi esibite, il pubblico batte le mani a volte per inerzia e a volte no, poi si spengono le luci, si spegne anche l’insegna di quell’ultimo caffè e intanto voi smontato tutto il palco.
Sono quei momenti dove rimanete solo voi e l’addetto al pagamento del compenso che, con la faccia da cane bastonato vi dirà: “La serata non è andata benissimo. Avevamo detto 300*, ve ne posso dare solo 150”.
Dividete il compenso fra 3/4/5 persone e vi salutate dandovi appuntamento per il giorno dopo in sala prove consapevoli che nella vita i musicisti non li farete mai.
Poi ci si lamenta che c’è chi si gioca la carta Ics Factor.

* Ho scritto 300, ma potevano essere 100, 200, 50…

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