Probabilmente il decorso sarà ancora lungo, Berlusconi dispone di diversi mezzi per tenere. Ma la sua stagione è finita. Ed è finita a Napoli prima ancora che a Milano, dove pure la sconfitta è netta e colpisce il cuore dell’alleanza tra Pdl e Lega. A Napoli governava il centrosinistra, il Pd è al potere da venti anni e tolta una stagione democristiana in realtà ha governato quella città da più tempo ancora. Lì è nata l’attuale legislatura, quella “del fare”, quella in cui il presidente del Consiglio ha promesso pulizia e risoluzione dei problemi additando la giunta di Rosa Russo Jervolino come unica responsabile del disastro rifiuti. E lì, invece, l’elettorato non solo gli ha voltato le spalle ma non lo è proprio stato a sentire. Ha preferito fidarsi di De Magistris, di un messaggio nuovo, di legalità, di cambiamento, di pulizia morale e di svolta sociale. Il messaggio è chiaro: il berlusconismo non ha più appeal, ha dato tutto quello che poteva dare e i tentativi che si ascoltano in tv di una “rinascita berlusconiana” – Giuliano Ferrara propone primarie subito per eleggere il presidente del Pdl – sono patetici.

Di fronte a un’alternativa disponibile, anche al Pd, la scelta è stata chiara. Ed è stata una scelta di cambiamento. Innanzitutto, di cambiamento delle figure dirigenti. C’è una distanza abissale tra chi ha vinto queste elezioni e coloro che commentano i risultati in tv, tra la novità Pisapia o De Magistris e i volti stantii dei vari Bindi, Rutelli o Latorre. Vedremo cosa sapranno fare i nuovi sindaci. Nel 1993 un’altra tornata di amministrative creò una grande speranza e sembrò aprire una nuova fase della politica italiana. Quella speranza è andata in larga parte perduta, si pensi alla fine di Bassolino, di Rutelli o di Leoluca Orlando. La capacità di Pisapia o De Magistris di onorare il mandato ricevuto è tutta da dimostrare e ci sarà tempo per parlarne. Ma è chiaro che questa tornata elettorale il messaggio lo invia in forma chiara: c’è una voglia di cambiamento, di liberarsi di una fase imputridita della vicenda italiana. Alcuni paragoni possono sembrare impropri ma tutto ciò non può non evocare questo “tempo dell’indignazione” che sembra scandire una nuova fase politica. Grandi speranze popolari che in alcune situazioni, vedi il Nordafrica, trovano la forma della rivoluzione come espressione concreta del loro agire, in altre, come in Spagna, si mettono in moto per esigere un futuro, in altre ancora, come l’Italia, utilizzano anche lo strumento elettorale, i candidati che trovano, le vie d’uscita a disposizione per cambiare pagina. Tutto ciò può produrre anche la vittoria al Referendum del 12 e 13 giugno, cosa che è più possibile di quanto sembri anche se è difficile.

Il tempo dell’indignazione offre nuove chances e nuove possibilità all’agire politico. C’è spazio per una nuova partecipazione democratica, per elaborare idee e progetti per una società nuova, ci sono risorse per discutere di un’uscita dalla crisi, anche per una critica più forte al capitalismo.

Il quadro politico sta già pensando a come organizzarsi per il dopo-Berlusconi. Il Pd sta già cercando di costruire la “grande alleanza” aperta al terzo polo e questo suo tentativo costituirà un evidente freno a questa spinta soprattutto se il tentativo dovesse passare per un “governo di emergenza”. E quindi è chiaro che servirebbe una nuova e diversa sinistra. Ma questa è un’altra discussione. Quello che possiamo dire a poche ore dalla chiusura dei seggi è che una fase del paese e che bisogna lavorare a una fase nuova.

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