Il 26 marzo scorso il centro di Londra è stato invaso da 500mila persone scese in piazza su richiamo dei sindacati. Si sono verificati attacchi coordinati e incredibilmente efficaci ai simboli delle grandi corporation, a negozi come Topshop, Boots, Vodafone. L’hotel Ritz è stato occupato da folle di dimostranti, la città della finanza e dello shopping è diventata, di colpo, un paese dei balocchi. E poi gli arresti indiscriminati, le proteste degli «indignati», le cariche a cavallo, i Reali preoccupati per il matrimonio alle porte. Tutti eventi eccezionali, per una città troppo spesso anestetizzata. Ma questa è solo la cortina fumogena alzata dai grandi media.

La vera, urgente riflessione da fare su questi eventi è questa: chi sono i ragazzi che da cinque mesi si ritrovano, si confrontano, immaginano un altro modo di scendere in piazza che non sia solo passeggiare con birra e panini dal punto A al punto B con il Guardian sottobraccio e applaudire la giovane promessa Ed Milliband nelle praterie di Hyde Park? Questi ragazzi da mesi si incontrano senza quelle sovrastrutture mentali che caratterizzano noi italiani. Non hanno paura di pronunciare, con candore, parole come comunismo, socialismo e anarchia. Non temono il dibattito dopo il lavoro, prima di mettere la testa sul cuscino. Non credono alle ricette degli opinionisti, dei fratelli maggiori, dei reduci. E nemmeno ai grandi sindacati, essendo quasi tutti studenti o precari. Sono dunque «terroristi» e nulla più?

Certo, hanno i loro limiti, non sono tutti particolarmente audaci o geniali, come del resto non lo è la società britannica tutta, in realtà piuttosto sclerotica. Ma è nella compenetrazione con altre esperienze, continentali e non, la forza di questi ragazzi. Dall’Italia prendono spunto per la teoria e per quel «soggettivismo giovanile» che dal nostro ’68 fu subito buttato alle ortiche; dall’Egitto e la Tunisia copiano slogan, icone, riferimenti anche retorici.

Sinceramente non ne posso più dei nostalgici che in Italia organizzano viaggi nella memoria dei Settanta. O di quelli che invitano alla calma per paura che altri esagerino dove loro hanno fallito. Il 26 marzo un “commando” di adolescenti, che prima d’ora non avevano mai interpretato il “ruolo” di black bloc, ha occupato il megastore Fortnum & Mason, trasformandolo per un paio d’ore in un’agorà di letture e musica, senza torcere un capello a nessuno. Non di una marachella si è trattato, ma di un vero «esproprio». Alle dozzine di occupanti ammanettati credo importasse davvero poco se anche così Cameron rimarrà al suo posto.

Dunque mi vien voglia di dire: non cercatela al Cairo, a Tripoli o a Tunisi, la rivolta. Non proiettate le vostre frustrazioni e le vostre speranze su terre di cui sappiamo poco, e quel poco viene filtrato dai persuasori occulti e dai loro lacchè. C’è già tanto da fare qui, in un formicaio con migliaia di storie che si intrecciano, si abbracciano, si colmano, politicamente, culturalmente ma anche sessualmente, etnicamente, tra le strade coperte di plastica bruciata e le notti passate in questura, storie che potrebbero tenerci impegnati per gli anni a venire, senza farci annoiare mai.

di Paolo Mossetti, scrittore e curioso, nato a Napoli nel 1983, tra i fondatori dei gruppi attivisti
Il Richiamo e Through Europe. Vive a Londra, dove lavora tra una casa editrice e un bar.

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