Non appena risuona la parola “colpevole”, i parenti delle sette vittime della strage della ThyssenKrupp trattengono a stento un moto di gioia. Poi, con il passare dei minuti, non trattengono più le lacrime. Fino a che un padre, sopraffatto dall’emozione, non viene adagiato su una barella. Non hanno perso un’udienza e non potevano certo mancare alla lettura della sentenza che, seppure niente e nulla potrà mai ripagare il dolore di una morte, li premia. Un verdetto pesantissimo quello della Corte d’Assise di Torino, che accoglie in pieno (e anche oltre) tutte le richieste dell’accusa. Harald Espenhahan, amministratore delegato della ThyssenKrupp Italia, è stato condannato a sedici anni e sei mesi di reclusione per omicidio volontario con dolo eventuale.

È la prima volta che un Tribunale riconosce un reato così grave per “incidente” sul lavoro. Tredici anni e sei mesi ai dirigenti Gerald Priegnitz e Marco Pucci, al direttore dello stabilimento torinese Raffaele Salerno e al responsabile sicurezza Cosimo Cafueri, imputati di omicidio colposo con colpa cosciente; 10 anni e dieci mesi (l’unica pena superiore alle richieste della pubblica accusa) al dirigente Daniele Moroni.

È da poco passata l’una del 6 dicembre 2007, quando, sulla linea 5 dell’acciaieria di corso Regina Margherita, si sviluppa un principio d’incendio. Antonio Schiavone, 36 anni e tre figli, si china per tentare di spegnerlo; improvvisamente cede un tubo, fuoriesce una gran quantità d’olio che provoca un’esplosione. Schiavone muore sul colpo. Dietro di lui sei compagni di lavoro vengono travolti dalle fiamme. L’ottavo componente della squadra, Antonio Boccuzzi, oggi parlamentare del Pd, riesce miracolosamente a scampare. Sei ore dopo l’esplosione muore Roberto Scola, 32 anni e due figli, giunto al reparto grandi ustionati del Cto di Torino pienamente cosciente. Il cuore di Angelo Laurino, 43 anni e due figli, si ferma all’Ospedale San Giovanni Bosco il pomeriggio del 6 dicembre. Bruno Santino muore di sera; aveva 26 anni e della fabbrica non ne poteva più e di lì a poco si sarebbe licenziato per aprire un bar con la fidanzata ventunenne. La Torino postolimpica, d’un tratto, scopre che gli operai esistono ancora. E che muoiono sul lavoro. Il 16 dicembre 2007 la città accompagna in duomo i funerali delle prime quattro vittime, poche ore prima che, in una stanza delle Molinette, finisca la lotta di Rocco Marzo, 54 anni e due figli, il più anziano (sarebbe andato in pensione dopo poche settimane) del gruppo. Tre giorni dopo, il 19 dicembre, muore anche Rosario Rodinò, 26 anni, stessa età di Giuseppe Demasi, che resiste fino al 30 dicembre. Sette morti, una strage mai vista.

Il verdetto della Corte d’Assise di Torino arriva dopo un processo celebrato a tempo di record, tre anni e cinque mesi dopo quella notte maledetta. Indagini chiuse il 23 febbraio 2008, un primo risarcimento record di 12 milioni e 970 mila euro da parte della ThyssenKrupp alle famiglie delle vittime (giugno) poi l’udienza preliminare e il rinvio a giudizio (novembre), quindi il dibattimento iniziato a gennaio 2009 e conclusosi ieri. Ottanta udienze spesso concitate in cui non sono mancati colpi di scena, su tutti l’indagine parallela a carico di una decina di persone che, “avvicinate” dall’azienda, avrebbero dichiarato il falso in dibattimento.

Secondo l’accusa il rogo della ThyssenKrupp fu una “tragedia annunciata”, causata dalla colpevole omissione di adeguate misure di sicurezza all’interno di uno stabilimento in via di dismissione: sistemi di rilevazione incendi assenti, estintori vuoti o malfunzionanti, carenza di manutenzione, sporcizia e, soprattutto, quell’email firmata Harald Espenhahan in cui l’amministratore delegato dichiarava il dirottamento di un investimento di 800 mila euro (sollecitato dalle assicurazioni nel 2006 dopo un analogo incendio nello stabilimento tedesco di Krefeld) “from Turin”, cioè non a Torino, ma a Terni, dove la linea 5 avrebbe dovuto essere smontata e trasferita (nonostante il picco di produzione raggiunto appena due mesi prima della strage). Per i pubblici ministeri Guariniello, Longo e Traverso “from Turin” era la pistola fumante, motivo dell’imputazione di omicidio volontario con dolo eventuale a carico di Espenhahan, che avrebbe coscientemente risparmiato sulla sicurezza accettando il rischio di incidenti anche gravi. Secondo i difensori – tra cui spiccava l’avvocato Franco Coppi, già legale di Giulio Andreotti – l’imputazione di omicidio volontario era “obbrobriosa”, formulata dalla Procura “in modo frettoloso sull’onda dell’emozione”, addirittura un “processo politico” contro “la fabbrica dei tedeschi” (dal titolo del documentario di Mimmo Calopresti). Secondo la difesa l’azienda non trascurò la sicurezza degli operai, cercando in qualche modo – pur dichiarando di volerlo evitare a tutti i costi – di addossare ai lavoratori la responsabilità di quanto accaduto. La Corte d’Assise di Torino non ci ha creduto.

di Stefano Caselli

Da Il Fatto Quotidiano del 16 aprile 2011

Le reazioni in aula. “Questa e’ una svolta epocale”, ha dichiarato il pm Raffaele Guariniello, “Non era mai successo che per una vicenda di morti sul lavoro venisse riconosciuto il dolo eventuale”. Ma non tutti i familiari delle vittime è soddisfatto. Laura Rodinò, sorella di Rosario, ha commentato: “Volevamo l’ergastolo. Ci devono ridare mio fratello, che aveva 16 anni, non i soldi”. E’ d’accordo il papà di Bruno Santino: “Ci aspettavamo l’ergastolo, altro che 16 anni. Sono degli assassini”. Tutti però ringraziano il pm Guarinello, lo abbracciano alla fine dell’udienza. Ormai non ci credevano più. “Ci dicevano che non sarebbero stati condannati”, racconta Rosina Platì, madre di Giuseppe Demasi, “Ci stavamo rassegnando, adesso mi sento come svuotata”. Insoddisfatto e poco ottimista anche l’avvocato della difesa Cesare Zaccone, secondo cui “vedere cose di questo tipo è sconsolante”. “Faremo appello”, ha aggiunto, “Ma non credo che otterremo molto di più”. A margine dell’udienza, Guarinello ha una nota negativa da ricordare: “Alla fine dell’anno il nostro ‘gruppo sicurezza sul lavoro’ perderà sei magistrati su nove, che significa perdere le professionalità che hanno portato a questo risultato”.

Sacconi: “Assetto sanzionatorio adeguato”. “La sentenza ha accolto il solido impianto accusatorio e costituisce un rilevante precedente. Essa dimostra peraltro che l’assetto sanzionatorio disponibile è adeguato anche nel caso delle violazioni più gravi”. Così il ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi, commenta la sentenza Thyssen. “La tragedia di Torino – osserva – impone soprattutto una più diffusa ed efficace azione preventiva perchè anche la sentenza più rigorosa non può compensare la perdita di vite umane e il grande dolore che ha prodotto. La via maestra rimane la collaborazione bilaterale paritetica tra aziende e organizzazioni dei lavoratori accompagnata da una idonea attività di vigilanza. Dovremo in ogni caso riflettere, a fini di maggiore omogeneità ed efficacia – sottolinea Sacconi – sull’opportunità di riportare alle funzioni centrali tutta la competenza in materia di salute e sicurezza nel lavoro e la relativa attività di controllo come era disposto dalla riforma costituzionale che non superò l’esame referendario. Su questo punto la modifica della Carta costituzionale potrebbe essere largamente condivisa da tutte le forze politiche e sociali”.

Camusso: “Il lavoro non è solo profitto”. “Questa sentenza dice una cosa precisa: la vita di un lavoratore non si può trasformare in profitto. Non so se sia una decisone storica, so che è la prima volta che un amministratore viene condannato per omicidio volontario. Non era mai successo”. E’ quanto afferma il leader della Cgil, Susanna Camusso, sulla sentenza sul rogo alla Thyssen. Secondo Camusso “viene così respinta l’idea che per conseguire il profitto si possano sacrificare le condizioni di sicurezza dei lavoratori”. Un passo importante, spiega, perchè “in Italia c’è una deriva culturale che porta a sostenere che nelle aziende si possa fare a meno dei diritti”.

La storia del processo. Il procedimento nei confronti della Thyssen si è aperto il 15 gennaio del 2009, quasi un anno dopo il rogo alla fabbrica. Quasi cento udienze, altrettanti testimoni ascoltati dalle parti, le più alte pene richieste in Italia in un processo sulle morti bianche. Durante il procedimento, alcuni imputati sono stati accusati anche di aver messo in atto “una vera e propria strategia per influenzare a loro vantaggio l’esito del processo”. Contro tre testimoni si è aperto un fascicolo per falsa testimonianza e per un altro, Berardino Queto, consulente della Thyssen, l’accusa potrebbe essere di concorso dei reati di omicidio e incendio colposi (con colpa cosciente) e di omissione delle cautele antinfortunistiche. Questo è infatti l’autore del documento di valutazione dei rischi della Thyssen, secondo i pm, decisamente lacunosa.”E’ stata confezionata ad arte per arrivare a determinare un rischio di incendio medio su quasi tutti gli impianti”, hanno spiegato i magistrati, “Per creare preventivamente una giustificazione alla mancata adozione degli impianti automatici di rilevazione e spegnimento degli incendi che avrebbero potuto salvare la vita ai sette operai”.

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