«Ucciso in un vero scontro a fuoco». «La verità va detta fino in fondo». Sono le parole del Ministro La Russa sulla morte dell’alpino Matteo Miotto in Afghanistan. Il che significa una cosa sola, visto che le parole sono importanti: l’Italia è in guerra.

Uno scoop.

Adesso possiamo finalmente raccontare la guerra, con termini bellici. Sul fronte abbiamo un contingente di 3.300 uomini. L’Italia schiera 750 mezzi terrestri tra carri armati, blindati, camion e ruspe, 30 velivoli di cui 4 caccia-bombardieri, 8 elicotteri da attacco, 4 da sostegno al combattimento, 10 da trasporto truppe e 4 droni. Il costo del conflitto (per l’Italia) è di circa 600 milioni di euro per il solo 2010.

Un altro scoop. La guerra costa.

Poi, possiamo parlare delle questioni meno comode. La coalizione militare guidata dagli Usa registra 2.278 morti (la fonte, costantemente aggiornata). L’Italia conta 34 caduti.
Muoiono anche i nemici, gli afghani. Oltre 6.500. E siccome la guerra si svolge in Afghanistan, muoino anche i civili: fra i 14 e i 30mila. Stime al ribasso, ovviamente.
Impossibile azzardare stime realistiche per quanto riguarda i feriti.

L’ennesimo scoop. La guerra genera morti.

Insomma, siamo in guerra e bisogna raccontare la verità, lo dice La Russa. L’abbiamo scoperto quasi nove anni dopo l’inizio del conflitto, ma adesso, finalmente, non dovremo più parlare di missione di pace.

Peacekeeping è un concetto nato all’interno dell’Onu. Prevede, fra l’altro, una questione fondamentale: il consenso di entrambe le parti in causa. Ad un certo punto, però, il peacekeeping è stato utilizzato per giustificare missioni di guerra, per indorare la pillola all’opinione pubblica. Il problema è che la guerra, quella vera, puzza e fa orrore. Ha il colore del sangue e dei suoni inimmaginabili. Non va bene per una fiction di prima serata, figuriamoci sul Tg1.

1990. Prima Guerra del Golfo, la guerra faceva paura. Le prime pagine dei giornali titolavano utilizzando la parola. Guerra, scritto a caratteri cubitali. Ai Tg passavano le immagini notturne che mostravano, in verde, le traiettorie dell’antiaerea irachena.

Ci fu, peraltro, l’illusione di una completa informazione sul tema. In realtà, venne applicata una forma rigidissima di giornalismo embedded. Quel che importava veramente era dare alle persone l’illusione di una copertura mediatica a tutto tondo. Ma i giornalisti accreditati in Iraq dovevano sottostare a regole rigidissime, per il loro “racconto di guerra” (in merito, si veda il bel lavoro di Claudio Fracassi, Sotto la notizia niente). Gli alleati bombardavano l’Iraq. I media bombardavano lettori e spettatori. Guerra. Guerra. Guerra.

Poi, dopo che l’audience fu ben saturo – senza in realtà aver visto o saputo quasi niente di quel che accadesse in Iraq, men che meno del perché non fu presa Baghdad, per esempio – la strategia comunicativa cambiò. La guerra non faceva più notizia, perché l’agenda politica l’aveva derubricata a missione di pace, esportazione della democrazia, difesa della libertà altrui, lotta preventiva al terrorismo. E simili. Così, la guerra non si racconta quasi più, cambiando le parole. E con le parole, cambiano i concetti, e ci si abitua facilmente. I morti e i costi restano. Ma evaporano fra le pagine dell’informazione.

Vale per tante cose.

Missione di pace in luogo di guerra.
Ricostruzione dell’Aquila invece di costruzione (con tutto quel che segue, ma ne ho già parlato abbondantemente, su queste pagine e altrove).
Miracoli invece di interventi dovuti dallo Stato (a volte anche fallimentari, ma non è questo che importa ora).
Black bloc invece di studenti che protestano.
E ancora, fra le mille parole chiave utilizzate a sproposito, comunisti, emergenza, riforma.

Ora, però, abbiamo scoperto che siamo in guerra. E potremmo ricominciare da qui, per esempio, a dare alle parole il loro vero significato. Oppure a scoprire quelle che mancano – come scrisse Travaglio per raccontare della protesta studentesca -, o ancora, a inventarne di nuove per proporre concetti complessi. In questo senso, si può leggere questo post come seguito di Consensificazione e Monosofia nucleare: la famigerata visione d’insieme non può mancare.

Siamo in guerra, e tocca difendersi.

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