Nel mio ultimo post, scrivevo di un’Europa “in fondo a destra”. Un’Europa che, sulla scia della politica conservatrice di lotta terroristica al terrorismo, coltiva un sentimento di paura costante: di attacchi terroristici come della perdita del posto di lavoro, dell’immigrazione, della privacy, della stabilità, dei privilegi. L’Italia, a tal proposito, è all’avanguardia. Eppure, l’utilizzo della paura come instrumentum regni genera effetti paradossali. In fondo, i governanti producono paura per calmarci. Ci spaventano in ogni modo, amplificando qualsiasi timore e reprimendo, al contempo, ogni sentimento di dissenso, persino l’espressione stessa del dissenso. L’operazione è talvolta sottile: la crisi economica non esiste, urlava fino a poco tempo fa B., ignorando che l’arte di governo richiede a chi comanda di infondere ottimismo, ovviamente, ma anche di agire perché l’ottimismo prevalga, laddove non ci sia. Un capo di governo che chieda ai cittadini di essere ottimisti è semplicemente irresponsabile: è proprio lui a dover creare, per tramite di politiche pubbliche, le condizioni perché l’ottimismo regni. Nella logica distorta di B., invece, chiunque gridasse allo scandalo di un governo inerte di fronte alla crisi avrebbe contribuito a danneggiare irreparabilmente la situazione. Con il risultato che oggi – si ricordi la trasmissione Annozero dell’altro ieri – chi ha davvero paura di perdere il posto di lavoro o la possibilità di offrirne accenna all’assurdità di favorire gli investimenti sul suolo africano, e dunque indirettamente anche la delocalizzazione delle nostre imprese, quando sarebbe più sensato condannare pubblicamente il governo per le mancate politiche di stimolo fiscale, per l’assenza di qualsiasi politica industriale, per l’assenza di un ministro dello sviluppo economico, per aver privilegiato relazioni economiche internazionali di ignoto (si fa per dire) interesse nazionale.

Spaventare per calmare. Ma non è una calma piatta, anzi nasconde un’ossessione per la paura di perdere qualcosa (lavoro, futuro, ecc.) e per la paura stessa. Quando si ha paura della paura, quando si teme di temere, magari perché è ostacolata l’espressione stessa della paura, si finisce per agire in modo tale da anticiparne la manifestazione; si finisce cioè per generarla direttamente, riducendo l’angosciante attesa. La paura produce violenza, e della violenza si ha paura – in particolare la temono coloro che hanno per primi da rimetterci, i nostri governanti. Che immediatamente inneggiano alla democrazia e al rispetto, come se ne fossero campioni, per richiamarci all’ordine. Siamo diventati rissosi, argomentano. Lo è diventata la sinistra, così come Di Pietro, chi contesta la Cisl, chi contesta Schifani, e via dicendo. Ciò che la vera e proprio metafisica dell’ordine che in tanti contesti ha finito – talvolta per influenza politica, altre volte per quella di qualche teoria, spesso per passaparola – per prevalere sulla libera espressione della nostra cultura, non può davvero accettare. Ma se c’è una lezione che possiamo trarre anche solo dal citato dibattito e dalle testimonianze di Annozero, è che occorre rivalutare il conflitto. Aprire le bocche. Pretendere, non chiedere, che i conflitti reali siano affrontati, che le loro cause siano prese di petto, anziché mascherate, e combattute. Si diano soldi all’università. Ci si impunti di fronte a Marchionne, magari ricordando che la Fiat non è nata con la sua amministrazione, ma che ha alle spalle una storia di mescolanza con lo stato. Si affrontino le cause dell’appiattimento di due sindacati su tre sulle posizioni del governo. Si dica apertamente, una volta tanto, che una parte importante dell’Italia non è così arrendevole come la si immagina. Il conflitto c’è, e ci chiama ad aggredirlo.

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