Ho pubblicato sul mio sito e su quello di Voglioviverecosì un post sulla “Pausapranzo”. Non immaginavo che avrebbe scatenato tanta mìmesi e passione. Lo pubblico, modificato, anche per i lettori del Fatto Quotidiano.

Quando torno a Milano rimango spesso fermo per strada, a guardarli. Sono i piccoli gruppi di colleghi che scendono dagli uffici per la pausapranzo (un sostantivo, non un sintagma di due termini). Tragedia e commedia, fuse in una sola scena.

Tra loro posso distinguere il più alto in grado, assorto, che annuisce solo per compiacenza, oppure che arringa i colleghi silenziosi e adoranti. Il ruolo dentro e fuori. Oppure il più giovane, l’ultimo arrivato, che con volto aperto, dimesso, sorridente, fa la spola da uno all’altro, cerca di mostrare che segue, che è interessato. Lui il ruolo lo cerca, e pensa che anche la pausapranzo possa aiutare a trovarlo. Poi gli altri, media esistenziale e professionale, indecisi se intervenire o no, cioè se somigliare al capo o all’ultimo arrivato, ma che nell’un caso e nell’altro non sia troppo, non sembri troppo. Anche la finzione ha regole e confini.

Quell’ora di tempo li rende gai, vuoi per il meritato riposo vuoi per l’eccitazione della rappresentazione. Attori inconsapevoli, comparse di second’ordine su un palcoscenico invisibile, fanno tuttavia del loro meglio, si impegnano a fondo. E’ per questo che il mio primo sentimento è quello della tenerezza.

Poi però non ce la faccio, mi arrabbio, vorrei sfondare quel gruppo con una spallata, disperdere i manifestanti a favore di una vita illogica, vorrei spingerli, strattonarli, attirare la loro attenzione, metterli alle strette, costringerli a vedere…

Vedere che c’è un’alternativa, che stare lì a recitare una scena assurda non è un vincolo, ma una scelta, che dunque non ci può essere nulla oltre la comprensione, certo non il perdono. Ma non il mio, che non conterebbe granché: il loro perdono verso loro stessi. La sera, esausti per aver recitato il nulla, non sapranno interpretare la loro vera vita, troppo stanchi, nel momento sbagliato.

Mi chiedo se si vedono o no. Mi chiedo se pensano che quella rappresentazione al cospetto del pubblico sbagliato, in luoghi che potrebbero essere migliori, con persone migliori, a fare cose più adatte, sia davvero la realtà. Oppure se sanno, se capiscono, se soffrono. Mi capita pensando ai malati terminali, i comatosi senza risveglio. Mi chiedo di loro, come degli altri: non possono cambiare il loro destino ma ne soffrono? Oppure non si rendono conto? Chissà…

Il tempo intanto fugge, a furia di pausepranzo, a furia di ore gettate a sudare per dire, sudare per ascoltare, vincolati dalle cravatte che dovrebbero renderli accettabili, dai tailleur che dovrebbero renderle credibili, occupando il canale audio con voci che non contribuiscono alla gioia, semmai l’azzerano, la rarefanno, fino a farla scomparire. Il tempo non si ferma. Tanto meno se si consuma in una pausa

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