Qualcuno, non ricordo chi, ha detto che gli anziani esprimono sempre quello che pensano.

Deve essere capitato anche a Giulio Andreotti, intervistato da Giovanni Minoli per lo speciale su Giorgio Ambrosoli. Alla domanda su come si spiegava l’uccisione del commissario liquidatore della banca del finanziere mafioso Michele Sindona, il senatore (ahimè) a vita ha risposto: “E’ una persona che in termini romaneschi se l’andava cercando“. Una frase disgustosa, oscena, immorale, offensiva non solo della memoria di un avvocato integerrimo che ha servito lo Stato, consapevole che avrebbe pagato con la vita ( è stato ucciso da un sicario di Sindona l’11 luglio del ’79 a Milano) e della sua famiglia, ma anche di tutti coloro che credono nei valori della legalità. Quello che si è lasciato scappare Andreotti, insolitamente incauto, è comunque coerente con quello che ha rappresentato per il Paese. Nonostante le riverenze di destra e di sinistra, nonostante i festeggiamenti in Parlamento, Andreotti – è bene ribadirlo – è stato riconosciuto dai giudici di Palermo colpevole di associazione mafiosa fino al 1980. Reato prescritto. La sentenza è della Corte d’appello, confermata in Cassazione.

Per fortuna questa volta la reazione alle sue parole c’è stata, compresa quella del più giovane dei figli di Ambrosoli, Umberto, anche lui avvocato: “La sua frase si commenta da sola. Il ruolo di Andreotti è già stato chiarito in ben due sentenze: la prima su Sindona e la seconda a Palermo. Il suo operato è sotto gli occhi di tutti”. Ma il sette volte presidente del Consiglio, dotato di grande furbizia, di fronte alle sacrosante polemiche di queste ore, si è trasformato in coccodrillo che piange dopo aver fatto il guaio. E’ pure diventato un po’ come Berlusconi, quando dice di non essere stato capito: “Sono molto dispiaciuto che una mia espressione di gergo romanesco abbia causato un grave fraintendimento sulle mie valutazioni delle tragiche circostanze della morte del dottor Ambrosoli. Intendevo fare riferimento ai gravi rischi ai quali il dottor Ambrosoli si era consapevolmente esposto con il difficile incarico assunto”. In realtà ai tempi della P2 si schierò con Sindona definito “il salvatore della lira” e contro Ambrosoli. Il suo quindi non sembra tanto un fraintendimento quanto un lapsus freudiano. Insomma questo è l’ennesimo episodio che rende Andreotti indegno dell’onorificenza di senatore a vita. Un riconoscimento che non avrebbe mai dovuto avere e che invece è stato negato, per esempio, al “padre” del pool antimafia di Palermo (capo di Falcone e Borsellino), il giudice Nino Caponnetto, nonostante le migliaia di firme raccolte.

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