Sono e resto convinto che sia necessario disobbedire a una legge che consideriamo ingiusta. Tempo fa – e su questo non ho dubbi – il linguaggio aveva un’altra forza e un diverso significato. Non discuto se fosse meglio o peggio. Registro la differenza, tra la forza e il significato di certe parole, rispetto all’indifferenza che, quelle stesse parole, suscitano oggi nella nostra coscienza. Per esempio. Disobbedienza civile.

Il reagire attraverso la “disobbedienza civile” comportava delle conseguenze. Personali. Sociali. Politiche. Penso – e con particolare emozione – alla lotta dei neri negli Stati Uniti. Penso a Ghandi e a quei momenti di impressionante emancipazione popolare: “Noi cessiamo di collaborare con i nostri governanti quando le loro azioni ci sembrano ingiuste” (fonte Wikipedia). Penso a don Lorenzo Milani che, nel 1965, scrisse un libro intitolato “L’obbedienza non è più una virtù” e alle lotte per l’obiezione di coscienza contro il servizio militare.

Il concetto di giustizia – connesso al contesto sociale e al criterio della legalità – è però talmente vasto, profondo, personale e al tempo stesso collettivo, che mi pare inutile affrontarlo nelle poche righe di un blog: è fortunatamente un tema inesauribile. Al quale siamo però chiamati – se non sempre, di tanto in tanto – a fornirci d’una risposta. O a dotarci almeno di qualche domanda. Non fosse altro che per orientarci, per avere consapevolezza del grado di democrazia al quale accediamo. E penso quindi alla storia dei tre operai di Melfi – Giovanni Barozzino, Antonio Lamorte, Marco Pignatelli – licenziati dalla Fiat, in occasione di uno sciopero, perché accusati d’essere “responsabili – sono parole loro – d’un reato, avendo deliberatamente ostruito il transito a dei carrelli che servono la linea di produzione all’interno dello stabilimento”. Non c’è stato alcun blocco, sostengono i tre operai. E lo sostiene anche un giudice, che rappresenta la Legge e, in base alla legge, ordina alla Fiat di reintegrarli nel loro posto di lavoro: la catena di montaggio.

La storia è nota: la Fiat di Sergio Marchionne li “accoglie” in fabbrica, gli paga lo stipendio, ma gli nega di sudarsi il pane quotidiano: li paga, sì, ma senza farli lavorare. Eppure loro insistono, rivendicano il diritto a sfiancarsi nella catena di montaggio, scrivono all’ex comunista, oggi presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Il vecchio “compagno” risponde con solidarietà, sottolineando che è necessario rimettersi all’autorità giudiziaria, cioè alla Legge, alla quale anch’egli si rimette, in attesa dei vari gradi di giudizio. E’ dal Corriere della Sera, però, che si leva l’unica voce che rivendica la disobbedienza alla legge ingiusta, disobbedienza agita dalla Fiat, ed è quella di chi amministra il dicastero dell’Istruzione: Mariastella Gelmini. “Quella di Marchionne è una scelta coraggiosa. Le sentenze vanno sempre rispettate, ma vanno rispettate anche le aziende. Non vanno tutelati soltanto quei tre operai, ma tutti i lavoratori. Soprattutto quelli che sono stati costretti a fermarsi quando i tre hanno bloccato quel macchinario paralizzando l’intera Iinea”.”Per la Fiat è stato sabotaggio”, ribatte il giornalista Lorenzo Salvia, “ma per il giudice l’ipotesi non regge”. “Marchionne è una persona prudente e accorta, se ha deciso di procedere così, avrà le sue ragioni”, risponde Gelmini. E poi aggiunge:”I diritti dei lavoratori sono essenza della democrazia”. Non si comprende, dal resto dell’intervista, a quali “diritti”, a quale “democrazia”, e soprattutto a quale “essenza” faccia riferimento quest’alta carica del governo che ci amministra.. Ma sono convinto che esprima il nesso – attuale e stringente – tra l’uso dei “media” e il “regime” nel quale viviamo.

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