“In Tibet c’è libertà di religione?” Il monaco ascolta la domanda in silenzio, poi abbassa la testa. Si chiama Norgye, ha 29 anni, e vive nel tempio di Jokhang a Lhasa, il santuario più sacro per il buddhismo tibetano. Ci viveva anche due anni fa, quando il Tibet si incendiò per una serie di rivolte, represse dalle autorità cinesi, che causarono decine – e secondo il Dalai Lama centinaia – di morti. E proprio due anni fa, il 28 marzo 2008, Norgye apparve per la prima volta di fronte ai microfoni dei giornalisti, scortati dal governo cinese nel monastero. Allora urlò, tra le lacrime: “Il governo mente, hanno ucciso molte persone. Il Tibet non è libero”.

Oggi, due anni e un “corso di rieducazione patriottica” più tardi, parla a voce bassa. E dice che sì, i tibetani godono di libertà religiosa. “Ho sbagliato, ero contro la legge. Non mi hanno picchiato né torturato”, spiega Norgye ai giornalisti, ammessi dal governo cinese nel monastero. “Dovevamo imparare la legge. E attraverso l’educazione ho capito che quanto ho fatto in passato era sbagliato, era contro la legge”. A controllare quanto dice, a pochi passi di distanza, sono funzionari governativi e Laba, un monaco più anziano, guida “ufficiale” per il tour di cinque giorni – rigidamente pianificato da Pechino – della regione autonoma del Tibet, normalmente chiusa ai giornalisti stranieri. L’incontro con Norgye non era nemmeno in programma: solo l’insistenza da parte dei media stranieri di incontrare almeno uno dei protagonisti della rivolta del 2008 ha costretto Laba a chiamare il discepolo. Il monaco anziano interrompe il giovane più volte, per precisare, correggere, chiarire. Ma le ore passate a studiare legge e pensiero comunista, e la “denuncia” del Dalai Lama durante il corso di rieducazione patriottica, hanno sortito l’effetto desiderato. “Non sapevo nulla delle proteste”, dice Norgye, quando gli viene chiesto che cosa l’avesse spinto a urlare la sua rabbia due anni prima.

Eppure nel 2008, i 30 monaci che avevano violato le regole imposte dal regime cinese per andare di fronte ai giornalisti avevano detto che a loro e ai loro 87 confratelli era stato impedito di prender parte alle manifestazioni pacifiche del 10 marzo. Quelle che, commemorando il 49esimo anniversario del tentativo – fallito – dei tibetani di liberarsi dal dominio della Cina, sfociarono 4 giorni dopo nelle  violenze compiute contro i cinesi di etnia Han, non tibetani. Quelle che portarono a una repressione decisa da parte di Pechino, che spinse molti governi a ipotizzare un boicottaggio – mai avvenuto – delle Olimpiadi di Pechino che sarebbero cominciate cinque mesi più tardi. Quelle dopo le quali il Dalai Lama – considerato un pericoloso leader separatista dal governo cinese, tanto che ad ogni sua visita in un Paese straniero Pechino minaccia ritorsioni in caso di meeting ufficiali con I capi di Stato – ha incontrato le autorità cinesi due volte, senza che di fatto nulla cambiasse. Anche oggi nella Regione autonoma del Tibet – quasi tre milioni di abitanti, il 92% dei quail di etnia tibetana, sotto il governo cinese dal 1950 – è vietato pregare e adorare il Dalai Lama, che vive in esilio in India. Eppure Norgye non ha dubbi, non ora. E a chi gli chiede come mai, se in Tibet c’è libertà religiosa, persino le foto del Dalai Lama siano messe al bando, risponde disciplinato: “C’è libertà. Quella, per ogni persona, di credere o no”.

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