Pensavo (a volte mi capita…): ci sono parole che non riusciamo più a pronunciare e che per questo ripetiamo in continuazione. Le neghiamo mentre le affermiamo.  Quasi volessimo esorcizzarle.

Una volta, tanto tempo fa, si diceva: “Mi si è rotto il cellulare!”. Ora, invece, diciamo: “Nooo, che tragedia, mi è morto il cellulare!” Ma mi domando, per la legge della corrispondenza biunivoca, se il mio cellulare quando non funziona più è morto, che diranno di me quando non respirerò più: che mi sono rotta? “Poveretta, non puoi capire, Deborasenzacca, non prende più, non ci ha campo…”. Immagino già i manifesti funebri: “Ha perso serenamente l’ultima tacca. Lo scatto alla risposta le è stato fatale. L’utente desiderato è definitivamente irraggiungibile”.

Ecco, io questa cosa non la capisco. Non facciamo fatica a dire è morto il cellulare (o la lavatrice, il phon, il forno a microonde, abbiamo le case ridotte a un camposanto). Però facciamo fatica a usare la parola morte nel suo contesto naturale. Appena ne abbiamo l’occasione usiamo dei sinonimi. Ormai non ci sono più morti, ma un esercito di trapassati, scomparsi, mancati, volati in cielo, insomma diversamente vivi.

Ma non è  di certo l’unico caso. “Vieni, amore”, dice la mia amica…al cane! (Quello a quattro zampe. E’ sempre meglio specificare. Magari una si confonde.) Oppure, in negozio, compri le scarpe e la commessa ti dice: “Ohhh, sì, non sono un amore?”Al massimo sono un tesoro, con quello che me le fate pagare. Ecco, questa è un’altra cosa che io non capisco. Se la parola amore la uso per il cane e le scarpe, allora come la chiamo la persona che mi fa perdere la testa, l’uomo per cui faccio tutto, chilometri per raggiungerlo, spendo una cifra di telefonate, metto su il caffè cinque volte al giorno, l’uomo per cui compro il giornale e glielo porto a letto, vedo la partita che non mi interessa, vado ai concerti che non mi piacciono, frequento amici che mi stanno sulle palle, l’uomo per cui cucino, pulisco, rassetto, rammendo e stiro? Eh? Come lo chiamo? (A parte “Bruttoporco-bastardo-egoista-infantile-viziato!”).

E – infine – la parola libertà. Uao! La libertà è una cosa importante. Un principio fondamentale. Un grandissimo ideale. Non dobbiamo dimenticare che per la libertà un sacco di gente è mor… è scompa…è volata in cielo! E come la onoriamo, noi? Quando la usiamo questa parola-reliquia dal valore inestimabile? All’happy-hour: “Ciao, sei accompagnata o libera?” No, scusa, ma perché se ho un compagno, non posso comunque essere una donna libera? Di più, una persona libera? Da quando, libera è diventato il contrario di occupata? Manco fossi una toilette! Che poi, anche tu, abbi pazienza, prima mi vieni dietro e poi mi dai del cesso? Ecco, questa è un’altra cosa ancora che io non capisco.

Il punto è  che ci dovremmo ribellare, tutti, e riappropriarci delle parole che ci hanno tolto. Perché noi siamo fatti, intrisi, plasmati di parole. Le parole sono importanti, diceva Moretti. Le parole sono pietre, diceva Carlo Levi. I limiti delle nostre parole sono i limiti del nostro mondo, aveva sentenziato prima di loro Wittgenstein (ok, lo ammetto, questa l’ho copiata da Wikipedia.)

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