Pd, la gioia dell’apolide di sinistra

22 Febbraio 2017

Sono un migrante della politica, un apolide, un senza casa. Uno di quelli che la società politica non vede più, un elettore poco interessante perché non “moderato” e non di “centro”, il luogo geografico dove si è statuito che ogni contesa si perda o si vinca. Non c’è tornata elettorale senza che debba cercare un rifugio provvisorio oppure vedermi confinato all’astensione.

Perché dovrei essere dispiaciuto della scissione in corso nel Pd? Perché dovrei, io che pure ho votato Romano Prodi, ritenere un incubo e addirittura la fine del mondo quello che sta accadendo? Dovrei lacrimare davanti al “cupio dissolvi”, come scrive da Parigi Enrico Letta? Si spacca il Pd, si riduce la sua forza, si destabilizza il suo potere e io dovrei piangere?

Esulto invece, e ho ottime ragioni dalla mia parte. Sono di sinistra perché credo nel valore intramontabile del diritto alla libertà. Credo all’uguaglianza. Credo nell’umanità e nel dovere che ogni individuo ha di farsi carico, per quel che può, di chi ha meno. Quindi sono e resto di sinistra.

Il Partito democratico ha però rifiutato di rappresentarmi. Non è questione delle caratteristiche psicologiche di chi oggi e anche domani sarà non solo il segretario ma il dominus assoluto. Renzi avrà pure atteggiamenti bulleschi, ma questa sua peculiarità è intesa dalla stragrande maggioranza dei suoi elettori come un valore positivo. E le scelte politiche che ha assunto, a parte quelle sui diritti civili e sull’immigrazione, hanno la virtù di non tacere quali ceti sociali e valori sostenere e quali altri no.

È una scelta legittima: può farlo. Ricordo le file alle primarie che lo proclamarono deus ex machina della sinistra. Militanti con i capelli bianchi che avevano votato per una vita Pci e perso per una vita, trovarono nel giovane sindaco di Firenze la speranza della vittoria. Solo con lui si può. Infatti s’è visto.

Renzi non è mai stato di sinistra, e questo incredibilmente veniva giudicato un formidabile atout. Certo, l’obiettivo era soltanto vincere, guadagnare il governo. Il Pd ha il più alto rapporto tra elettori ed eletti; dal Pd sono venuti gli ultimi quattro presidenti della Repubblica, del Pd gli ultimi tre premier. Di area Pd la maggioranza della Corte costituzionale, del Pd e affini la maggioranza dei governatori regionali e dei sindaci metropolitani. Nel Pd è stato scelto chi mandare nelle più grandi aziende pubbliche. In quel partito, a volte solo in quello, l’orientamento sulle nomine nel mondo bancario, assicurativo, nell’editoria. Naturalmente nella Rai.

Questo esercito enorme di amministratori è valso a sentire più vicini, più forti, più sicuri i legami che ciascuno di noi ha con la radice della sua speranza? Qual è la passione che ha trasmesso il Partito democratico a uno che, come me, crede ancora ai valori della sinistra?

E non dovrei benedire ogni atto, seppure parziale, debole, contraddittorio, che mi aiuti a ritrovare casa, offrire una buona ragione al mio voto? Domanderete: con D’Alema, Bersani, Speranza? Lo so anch’io. Ma spero che ogni refolo di vento possa agitare la foresta dei pioppi immobili, delle querce senza più foglie.

Oggi il Pd decide il giochino di chi resta e chi va via, secondo la preminente necessità – come ha utilmente confessato nell’illuminante fuori onda televisivo il ministro Graziano Delrio – di ciascuno di conservarsi un posto in Parlamento.

Che comunque è un mestiere e anche un salario per chi ha figli a casa e mutui e forse autisti e segretarie da pagare ogni fine mese.

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