Flat tax per ricconi. Con tanti saluti alla Costituzione

9 Marzo 2017

È l’8 marzo e qui non parliamo di donne. Esercitando il diritto di occuparci di ciò che ci sembra importante, parliamo di soldi, affare assai meno elegante di cui trattare, ma che tocca tutti. E dunque è davvero paritario. Ieri è stato pubblicato il decreto attuativo di una norma approvata ai tempi del governo Renzi: la flat tax per i nuovi residenti stranieri “ad alto patrimonio”, gli “High net worth individual” (la perifrasi che usano i banchieri per indicare i ricconi). È rivolta a chi intende trasferire la residenza fiscale in Italia beneficiando di un’imposta sostitutiva sui redditi prodotti all’estero. L’opzione, introdotta appunto con la legge di Bilancio 2017, prevede il pagamento di un forfait di 100mila euro per ciascun periodo d’imposta per cui viene esercitata; per i familiari è prevista un’estensione con il pagamento di 25mila euro.

La domanda va presentata all’Agenzia delle Entrate che farà i suoi controlli col Paese di provenienza prima di autorizzare l’opzione (che vale per i redditi prodotti all’estero e non per quelli prodotti in Italia, che sono soggetti a tassazione piena, ma comunque stiamo parlando di persone che negli ultimi dieci anni sono state all’estero). I 100mila euro andranno poi versati in un’unica soluzione (del resto è difficile che questi paperoni abbiano necessità di rateizzare). Vista anche la Brexit, si pensa che parte di coloro che se ne andranno dal Regno Unito (che ce ne saranno tra i super-ricchi è tutto da vedere) potrebbero venire in Italia: in Portogallo e Irlanda esistono già meccanismi del genere per attrarre vuoi gente coi soldi, vuoi i famosi investimenti dall’estero. In sostanza l’Europa – strutturata come una bizzarra unione in cui i Paesi alleati in realtà concorrono tra loro forsennatamente – sceglie la via del dumping: il vecchio continente culla dello Stato sociale diventa, più che gli Stati Uniti d’Europa, un grande ring in cui ciascuno cerca di fregare l’altro.

Ora però l’articolo 53 della nostra Costituzione dice che “Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività”. Progressività vuol dire che più guadagni, più tasse paghi: l’imposta aumenta in maniera progressiva rispetto all’imponibile. Giusto, no? È vero che per esempio il bollo non è una tassa “progressiva”, ma le due imposte non sono equiparabili.

“Mi pare – spiega Gaetano Azzariti, costituzionalista della Sapienza – che siamo di fronte a un’ulteriore dimostrazione di come lo Stato abbia rinunciato ad applicare i principi di un proprio sistema tributario. È una sorta di condono che si somma a provvedimenti come la voluntary disclosure. Se ci mettiamo su questa strada saremo perdenti: non saremo mai in grado di gareggiare con le aliquote dei paradisi fiscali”. È ignobile che in un Paese con una tassazione altissima come l’Italia (guardare la propria busta paga per credere) e con una crescita enorme e continua delle disuguaglianze sociali, si possa pensare di fare sconti a chi di certo non ne ha bisogno.

Dagli Anni Ottanta in poi questo modello economico, in cui il capitale fa nella sostanza ciò che vuole sul presupposto che prima o poi i benefici arriveranno anche in fondo alla piramide sociale, si è rivelato fallimentare. Che fine fa il principio di una società solidale basata sul diritto, e non l’elemosina, che informa la nostra Costituzione? Finisce nel cestino, anche se si usano parole straniere poco comprensibili ai più. Poi si stupiscono dei populismi in crescita.

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