L’ordinanza

Dieselgate, come le istituzioni hanno nascosto il caso italiano. Ma giudice dispone imputazione coatta

Filtri e inquinamento - Il Gip ordina il processo per tre dirigenti dei Trasporti e smaschera chi ha insabbiato lo scandalo

Di Marco Palombi e Carlo Tecce
30 Aprile 2017

Quando capita all’estero, con una distanza congrua dai conflitti di interessi, in Italia si riempiono pagine e si intavolano seminari per stigmatizzare le brutte, sporche e cattive aziende che inquinano con le zozzissime macchine diesel. Quando capita in Italia si fischietta. I cosiddetti Fap – i filtri antiparticolato montati sulle autovetture diesel – fanno male alla salute e all’ambiente e non sappiamo neanche quanto, perché le polveri sottili sminuzzate in “nano-particelle” pericolosissime per la salute non sono rilevate. Questa vicenda è emersa grazie alle denunce della ditta Dukic Day Dream – che ha ideato un congegno alternativo ai Fap e subìto le angherie del ministero dei Trasporti (Mit) – e non passa all’oblio grazie a un Gip di Roma, Paola Di Nicola.

La giudice è autrice di un dispositivo che – oltre a ordinare l’imputazione coatta per tre alti dirigenti del Mit per il reato di omissione e rifiuto in atti di ufficio – smaschera una ad una responsabilità e leggerezze dei controllori italiani: l’Istituto Superiore di Sanità (Iss), i ministeri dei Trasporti, dell’Ambiente e della Salute. Di Nicola fa notare che, pur consapevoli dei rischi per i cittadini, le istituzioni hanno cominciato a interessarsi all’argomento dei filtri – obbligatori per legge dal 2008 – dopo la lettera del luglio 2015 di Giuseppe Pignatone, il procuratore di Roma. Con sette anni di ritardo.

I Trasporti e la Sanità hanno risposto e persino tentato di abbozzare una replica sensata (alla fine, hanno fallito), mentre l’Ambiente ha taciuto. Dopo i solleciti di Pignatone, ricostruisce la Di Nicola, nel settembre del 2015, l’Istituto Superiore di Sanità ha formulato un parere con una disarmante premessa: non abbiamo competenze per intervenire sul percorso di omologazione o nella verifica del sistema di funzionamento dei Fap. In realtà, precisa la Di Nicola, l’Iss dal ’78 dispone di una stazione per il rilevamento e lo studio della qualità dell’aria.

Nonostante la presunta incompetenza in materia, l’Iss ha affermato che il particolato ultrafine, che scaturisce dai Fap, mostra un potenziale tossico maggiore rispetto al Pm 2,5 o Pm 10 “con la possibilità una volta inalato di raggiungere e di depositarsi nelle parti più profonde dei polmoni o in organi extra polmonari”.

Come rimediare? Non si sa, perché la dimensione del problema è sconosciuta: “Le reti di monitoraggio della qualità dell’aria in Italia e in Europa sono attualmente predisposte per la misura del Pm 10 e del Pm 2,5”. E cos’è accaduto dopo l’inquietante testo dell’Iss? Il governo avrà seguito il consiglio della Procura di Terni (l’indagine oggi a Roma è partita da lì) che suggeriva di “valutare l’opportunità di procedere al sequestro preventivo dei Filtri”? No, per carità. L’unico obiettivo è negare pure l’evidenza.

I ministeri coinvolti, nel marzo del 2016, hanno organizzato una riunione con i dirigenti indagati, forse per far consolidare la pantomima. Per il dicastero di Beatrice Lorenzin, ricorda il Gip, c’era la dottoressa De Martino che ha ridimensionato l’importanza del parere dell’Iss: “Non riporta alcuna esplicita indicazione circa la nocività dei Fap”. La stessa De Martino, che aveva appena ricevuto una prima ordinanza del Gip, durante l’incontro fra i ministeri ha accusato la giudice di aver equivocato il testo dell’Istituto superiore.

Il ministero dei Trasporti, sollevato dalla singolare esegesi di De Martino, si è poi rifugiato ancora nell’Iss per ottenere un secondo parere. L’Istituto Superiore di Sanità, nel luglio del 2016, ha allertato il Cnr di Napoli a pochi giorni da un’udienza e ha modificato la versione precedente annoverando statistiche vecchie di almeno sette anni (dal 2002 al 2010): “La tecnologia Fap di nuova generazione, accoppiata ai sistemi di abbattimento degli ossidi di azoto e all’utilizzo di carburanti con basso tenore di zolfo, rappresenta un passo in avanti nell’abbattimento delle emissioni degli autoveicoli diesel”.

Nella bibliografia, consultata per la stesura del parere, l’Iss ha citato otto studi abbastanza anziani, il più recente – del 2012 – è quello prodotto dalla Pirelli per difendersi. Va rammentato che Pirelli, assieme a Iveco, era l’azienda monopolista del mercato dei filtri, “favorita consapevolmente e abusivamente” dal ministero dei Trasporti a discapito di Dukic Day Dream.

Pirelli e Iveco si sono spartiti un giro d’affari che nel 2008 ammontava a circa 20 miliardi di euro e, con la complicità del ministero, a differenza di Dukic, sono riusciti a ottenere “l’omologa” – cioè l’ok alla messa in commercio – senza affrontare la prova di durabilità dei filtri. Chiosa il giudice: “Non si può non rilevare che non risponde alla ordinaria e corretta modalità di agire di un’istituzione pubblica, come l’Istituto Superiore di Sanità, redigere un parere tecnico, di estremo rilievo, perché riguardante la salute pubblica, utilizzando studi inviati a imprenditori interessati al suo esito, come appunto Pirelli, senza che risulti l’espressa formale richiesta all’inoltro. A ciò si aggiunge il dato che il parere dell’Iss era stato sollecitato, nella sua elaborazione, anche dagli odierni indagati che hanno continuato a rappresentare, nelle sedi istituzionali, il ministero dei Trasporti”.

Se vi stupite dell’assenza di un Dieselgate italiano, la spiegazione la possono fornire l’Istituto Superiore di Sanità, i ministeri dei Trasporti, della Salute e dell’Ambiente. Quest’ultimo, se ha voglia.

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