L’opacità non si addice al Vaticano di Francesco. Il ritmo frenetico dei media, che 24 ore dopo già dimenticano le vicende del giorno precedente, possono dare l’illusione che l’affare Milone – il revisore generale dei conti vaticani cacciato a giugno – sia ormai archiviato. Ma il buco nero dell’affaire sta lì e chiede risposte precise. Papa Bergoglio ha costruito la sua riforma del governo pontificio sulla trasparenza. Ha appoggiato pienamente la verifica totale dei 18mila conti correnti dello Ior affidati a una società straniera (quale governo al mondo permette ad un’agenzia straniera di mettere il naso negli affari dei clienti della propria banca?). Ha richiamato e processato canonicamente e privato della tonaca un ambasciatore vaticano – il nunzio Jozef Wesolowski – riconosciuto colpevole di abuso dei minori.

Eguale trasparenza non sta accompagnando il caso Milone e quanti ritengono che la cosa migliore sia di insabbiare la vicenda, non stanno consigliando bene il Papa. Perché pulizia e trasparenza del sistema finanziario vaticano sono stai uno dei punti centrali dei cardinali nel conclave del 2013, che ha eletto il papa argentino.
Libero Milone, primo revisore generale dei conti nella storia del Vaticano, è stato licenziato il 19 giugno scorso. Tecnicamente si è trattato di dimissioni volontarie, accompagnate dall’impegno di non portare in pubblico le motivazioni. In realtà, come ha rivelato lo stesso Milone, si è trattato di una costrizione sotto minaccia di essere arrestato. Per di più è stata sottoposta a Milone in un primo momento una “lettera di dimissioni” datata 12 maggio. (Dunque tutto era stato preordinato).
Milone stava lavorando a tre dossier molto importanti: l’analisi preliminare dei dati patrimoniali, finanziari ed economici della Santa Sede, relativi agli anni 2015 e 2016, nonché la revisione dello stato patrimoniale al 31 dicembre 2017.

E qui sorge già la prima domanda. Come mai a quasi quattro mesi non è stato nominato un nuovo revisore generale – neanche ad interim – visto il compito fondamentale che gli è attribuito: verificare in “piena autonomia e indipendenza” la situazione patrimoniale e finanziaria di tutti i dicasteri della Santa Sede, degli enti ad essa collegati e dello Stato Città del Vaticano con particolare riguardo a eventuali anomalie quanto a “impiego delle risorse finanziarie (…) irregolarità nella tenuta dei bilanci (…) irregolarità nella concessione di appalti o di contratti per servizi esterni o nello svolgimento di transazioni o alienazioni”.

Di fatto, con la precipitosa partenza del responsabile della segreteria per l’Economia, cardinale Pell, – costretto a recarsi in Australia in seguito a gravi accuse di abusi su minori – è rimasto decapitato e paralizzato tutto il vertice dei controlli sull’amministrazione finanziaria del Vaticano. Non è una situazione sostenibile. D’altronde, non è nemmeno sostenibile che rimanga senza prove e riscontri il castello di accuse, che il Vaticano ha rovesciato sull’ex Revisore generale.

Milone non è un personaggio qualsiasi. Ha ricoperto incarichi di prima linea in aziende e società di rilevanza internazionale come Deloitte, Wind, Falck, Fiat. E’ stato portato in Vaticano da una società internazionale di cacciatori di teste, lo Studio Egon Zehnder. La Santa Sede ha accusato pubblicamente Milone di avere “incaricato illegalmente una Società esterna per svolgere attività investigative sulla vita privata di esponenti della Santa Sede”.

Accuse gravissime, che però non possono rimanere generiche. L’opinione pubblica, che segue con un alto consenso le riforme di Francesco, ha diritto di sapere quali sono i cardinali spiati, perché sarebbero stati nel mirino e come si chiama la società che avrebbe operato investigazioni illegali.

Di fronte ad accuse di così devastante portata, l’opacità finisce per danneggiare l’opera del pontefice, dando l’impressione che – come ai tempi di Vatileaks – ci siano in Vaticano forze senza controllo che compiono azioni illegali. O che al contrario si affannano a coprire. Perché non manca chi all’interno del Palazzo apostolico sia del parere che Milone sia stato colpito perché voleva “verificare troppo” (come il suo sponsor cardinale Pell). In altre parole, perché eccessivamente “zelante”.

Dice un esponente di Curia: “Se Francesco non avesse una così buona stampa (…) Certe cose, le avesse fatte papa Benedetto sarebbe già stato fatto a pezzi dieci volte”. Parole che corrodono una leadership. Ed è per questo motivo che il caso Milone non è chiuso. Al contrario, andrebbe scoperchiato del tutto per sapere la verità.
Non dimentichiamo che il solo arrivo di un revisore generale è stato percepito da alcune forze in Vaticano come un evento così allarmante che pochi mesi dopo il suo insediamento ignoti entrarono nel computer di Milone. Non erano certo angeli della trasparenza e della luce gli sconosciuti scassinatori elettronici.

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