Non è il Nero, assicura, quasi offeso. Non è il Samurai, spiega. “Sono un vecchio fascista degli anni ‘70” dichiara in aula Massimo Carminati, ascoltato per la prima volta in un dibattimento, dopo decine di processi. Una frase che appare come un paravento, una coperta che cerca di nascondere quel mondo profondo della Terra di mezzo, la palude romana dove è affondata la capitale d’Italia. Dai misteri degli anni ‘70, quando i fascisti si mescolavano con le batterie criminali della banda della Magliana, fino agli affari di Mafia capitale, il sistema grigio, gelatinoso che ha avvolto il Campidoglio. “Avvocato, lei mi conosce, lo sa che i fatti miei non li conosce nessuno”, spiega Carminati all’avvocato Ippolita Naso che lo interroga. Una storia parziale, dunque, quella che mette in scena il principale imputato nel processo in corso nell’aula bunker di Rebibbia.

“Giornalisti cialtroni” – Ad alzare subito i toni, lanciando il primo sasso mediatico, è l’avvocato Giosuè Naso, difensore di Massimo Carminati: “Voi giornalisti siete tutti cialtroni e quello che penso di voi lo dirò in fase di discussione. Facendo anche i nomi”, grida prima dell’inizio dell’udienza, scontrandosi con una cronista. Carminati nel frattempo era concentrato sugli appunti, in una saletta del carcere di Parma, mentre Riccardo Brugia – il suo braccio destro, amico di una vita e camerata da sempre – passeggiava nervoso, ansioso. Si ferma all’improvviso, sembra quasi mettersi sull’attenti, mentre Salvatore Buzzi guarda la telecamera della videoconferenza. Tutti aspettano lui, “il fascista”, l’uomo che ha attraversato – spesso senza conseguenze – tanti misteri d’Italia.

Il rapinatore che aveva organizzato il furto al caveau di una banca dentro la cittadella giudiziaria di piazzale Clodio, portando a casa un bottino niente male e qualche segreto contenuto nelle cassette di sicurezza. Parlerà per almeno due udienze, Carminati: “Ma dato che è stato limitato il diritto di difesa con il 41 bis, anche l’esame avrà dei limiti, non è possibile difendersi se si è al 41 bis senza avere mai avuto una condanna per mafia. Durante il controesame sarò io a bloccare il mio cliente, mantenendo questi limiti”, spiega subito l’avvocato Ippolita Naso, segnando i paletti della deposizione. Chi si aspetta rivelazioni rimarrà deluso. Lo show, preparato con cura, può iniziare.

“Io sono l’aggravante mafiosa” – Jeans, maglietta nera, scarpe da ginnastica chiare, orologio vistoso sul braccio destro, Massimo Carminati in fondo all’immagine ci tiene. Non sopporta chi lo accosta al traffico di droga, spiega. I motivi? “Questioni mie”. Per il resto non ha problemi nell’incassare le peggiori accuse: “Io sono l’articolo 7 in questo processo (l’aggravante mafiosa, ndr), se non c’ero io questo processo sarebbe stato un caso ridicolo”, spiega ai giudici e agli avvocati, in una delle tante iperboli. “A Roma negli anni ‘70 eravamo 200 disgraziati che facevamo un certo tipo di vita – prosegue il suo racconto, quando il suo legale gli chiede di ricostruire da dove nascevano certi rapporti al centro delle indagini – conosco Riccardo Mancini e Carlo Pucci da quarant’anni, da quando avevo 16 anni. Ci comportiamo oggi tra di noi come ci comportavamo all’epoca, lui mi chiamava “maledetto” e io “celebroleso e ciccione”. Io non rinnego nulla di quella vita, non me ne frega proprio niente”. Il tono in fondo è quello del “me ne frego” slogan fascista: siamo così, siamo il mondo di sotto.

Il senso di appartenenza a quella destra eversiva e radicale che lasciò morti sull’asfalto negli anni ‘70 magistrati, investigatori o semplici studenti lo rivendica, come un mantra. L’assist glielo fornisce alla fine della prima udienza del suo interrogatorio quello stesso avvocato Giosuè Naso che oggi i giornalisti li chiama cialtroni: “Carminati… anzi… Massimo: spesso ti sei espresso con il noi. A cosa ti riferisci?”, chiede. “Alla mia comunità degli anni ‘70”. “Quindi non ad un contesto attuale?”. “No, io non ho nessun contesto attuale, quello che pensavamo allora, lo pensiamo oggi, io mi riferisco ai valori che avevamo da ragazzini, mi riferisco a quello, nulla di attuale”, è la risposta secca. “Grazie, Massimo”, è la chiusura dell’avvocato Naso.

“Io sono vecchio di queste cose” – Il primo tema, affrontato all’inizio dell’interrogatorio, riguardava il contatto con i servizi segreti e le forze di polizia, accusa contenuta all’interno dei capi di imputazione: “E’ una leggenda metropolitana”, replica secco, un po’ offeso. Un’accusa che si accostava con diverse intercettazioni ambientali, dove Carminati mostrava di conoscere l’esistenza di indagini su di lui, tanto da prendere precauzioni sulle comunicazioni: “Sono sempre stato controllato dalle forze dell’ordine, nel 2011 avevo avuto una perquisizione da parte della Digos, durante il periodo di affidamento che dovevo scontare dopo la condanna per il furto al Caveau. Già da quell’epoca, era il 2011, mi ero accorto degli appostamenti: tornavo a Sacrofano e mi aspettavano fuori, mi seguivano, erano visibilissimi i pedinamenti, era una cosa che non capivo. Pensavo che fosse perché abitavo nella villa di Iannilli, che era stato arrestato per il caso Fastweb. Erano pedinamenti ossessivi”. Nel suo racconto ci tiene a mostrare la sua expertise criminale, in grado di capire come si muovono gli investigatori. Non è uno spione, racconta, ma neanche un delinquente da strada: “Ho sempre interloquito con loro. Non rispondevano, rimanevano rigidi. Se avessero risposto dicendo ‘ma che vuoi’, avrei capito che non era  niente, ma non era così. Quando sono andato a Londra mi ha seguito la Special branch, la sezione di Scotland Yard che si occupa di queste cose. Ho un occhio solo, ma quello vede bene…”.

L’indagine, spiega, in fondo era nell’aria: “Nel 2013 tutti sapevano di una grande indagine, io leggo 4 giornali al giorno e a Roma se leggi i giornali sai tutto della città. Nel 2013 puntano sul comune, parlano dei fasciomafiosi, degli ex estremisti e io comincio a prendere le misure su queste cose”.

Fascista e commerciale – I soldi erano il suo pensiero, racconta: “Non volevo rendere noti i miei guadagni perché mi aspettavo l’arrivo del risarcimento per le parti civili del processo per il furto al caveau. A Buzzi dissi che avevo problemi a giustificare i soldi, li potevo prendere solo in contanti o attraverso altre persone”. Il mestiere di far perdere le tracce ai soldi sembra averlo imparato molto bene: “Sono un bravo commerciale, sono molto bravo con i soldi, molto bravo, molto più di quanto si possa pensare”, rivendica, dimenticando per un attimo la parte del “fascista anni ‘70” e forse entrando senza volere in quella parte oscura che chiama “affari miei”.

Nella sua deposizione alla fine punta ad un obiettivo, Gianni Alemanno, che cerca quasi di non nominare: “Alemanno non lo conosco, se lo avessi conosciuto sarei andato lì a sfondare la porta a calci. Non ho nessuna stima per lui”. Lui è di altra pasta, spega: “Quelli del mondo di sopra sono tutti ‘sola’, sono truffatori, io sono del mondo di sotto, dove tutto è più semplice. Non l’ho mai incontrato in carcere, a quei tempi gente come lui non la potevano mettere con noi, sarebbe successo qualcosa… Niente di grave, eh… per noi. Io vengo da un mondo molto più onesto, non abbiamo 10 comandamenti, ne abbiamo solo 3, ma li rispettiamo”. E’ la vecchia contrapposizione del mondo fascista che riemerge, forse anche questa come una sorta di effetto speciale. Ed è un punto sul quale Giosuè Naso lo interrompe: “Massimo non delirare, però…”.

“La Catana? Per sfilettare” – “Io sono diventato una macchietta – spiega quando la prima giornata di interrogatorio si avvia alla conclusione – e non mi fa piacere, è una cosa che non ti dà potere. Questo è infointrattenimento, io non c’entro nulla con romanzo criminale, con il Samurai, sono tutte puttanate”. La presidente ricorda il ritrovamento di una katana, la spada del samurai: “La spada serve a sfilettare i tordi, me l’hanno regalata per prendermi in giro quando è uscito il libro Suburra”. Il presidente, con una certa abilità, ricorda il valore simbolico della spada: “Io so bene che cos’è una katana, so bene quanto costa, presidente”, spiega sottolineando quel simbolismo, dando peso alle parole.

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