Il ragionamento di Renzi e del Pd, dopo che la Consulta ha bocciato una parte consistente della legge Madia, è molto semplice: è la prova che il Paese è bloccato. E per sbloccare il Paese bisogna votare Sì al referendum, così verrà modificato il titolo V e i bastoni tra le ruote del cambiamento non ci saranno più. Le cose, però, non stanno così. L‘incostituzionalità della riforma della Pubblica amministrazione, infatti, nulla ha a che vedere con i cambiamenti che verrebbero introdotti in caso di vittoria del fronte governativo il prossimo 4 dicembre. A spiegarlo bene è Massimo Villone, vice Presidente del Comitato per il No ma soprattutto professore emerito di Diritto Costituzionale all’Università Federico II di Napoli. Per Villone quella di Renzi e dei rappresentanti del governo altro non è che “pubblicità ingannevole per il Sì”. Il motivo? “La Corte ha dichiarato la incostituzionalità del Decreto Madia perché l’intreccio delle competenze tra i livelli istituzionali avrebbe richiesto non un semplice parere delle autonomie sui decreti delegati attuativi della legge 124, ma una intesa formale da raggiungere nelle Conferenze tra Stato e autonomie. Intesa in cui si realizza il fondamentale principio di leale collaborazione tra i livelli istituzionali”. Un principio, quest’ultimo, che rimarrà identico anche in caso di vittoria del Sì al referendum di domenica prossima. Non è vera, quindi, la versione dei sostenitori del Sì, secondo cui la riforma Renzi-Boschi avrebbe evitato la pronuncia di incostituzionalità grazie alle modifiche introdotte nel rapporto Stato-Regioni.

Il professor Villone: “Ecco perché la riforma non avrebbe cambiato nulla”
“Su questo la legge costituzionale Renzi-Boschi non reca alcuna innovazione” dice Villone, che poi ha spiegato come realmente stanno le cose: “La programmazione e organizzazione dei servizi sanitari viene assegnata alla Regione, a cui rimane anche la competenza sulla propria organizzazione amministrativa. Per il lavoro alle dipendenze di pubbliche amministrazioni – sottolinea il costituzionalista – lo Stato acquisisce solo una potestà legislativa tesa ad assicurare discipline uniformi su tutto il territorio nazionale. Quindi l’intreccio delle competenze statali e regionali rimane, e con esso la necessità dell’intesa”. Come prima più di prima: la riforma, quindi, cambia zero. “Non si può sostenere – prosegue Villone – che basterebbe il passaggio nel Senato cd dei territori, perché l’intesa presuppone una partecipazione alla pari in un processo decisionale il cui esito positivo dipende dall’assenso di tutti i partecipanti. Al contrario – continua il professore – nel bicameralismo differenziato introdotto dalla riforma, non ci sarebbe una partecipazione alla pari nella decisione perché il voto del Senato potrebbe, nel caso qui considerato, essere superato dal diverso voto della Camera, anche nell’ipotesi fossero adottate leggi in base alla clausola di supremazia”. Insomma, “la sentenza della Corte conferma come sia inaccettabile che ai problemi del paese si dia la sola risposta rozza e semplificata di una concentrazione del potere nelle mani di chi comanda a Palazzo Chigi“.

Renzi, Madia e il Pd sulle barricate
Venerdì scorso, però, tutto lo stato maggiore del Pd ha reagito alla bocciatura da parte della Consulta buttando la palla sul campo del referendum per fare campagna elettorale a favore del Sì. “E poi mi dicono che non devo cambiare il titolo V. Un Paese bloccato” ha detto Renzi. “Col Sì nessuna Regione potrà più bloccare il Paese” ha attaccato la Madia.”È un motivo in più per rimettere mano al titolo V” ha aggiunto Luca Lotti. “Stiamo procedendo benissimo con il questo referendario perché questa storia delle competenze tra Stato e Regioni ce la trasciniamo da molti anni” ha sentenziato Davide Faraone. Arrabbiature in ordine sparso e slogan a corredo. Tutto in funzione del Sì al referendum costituzionale del 4 dicembre. A una settimana esatta dalle urne, poi, Matteo Renzi è tornato sulla bocciatura della Consulta durante la sua ospitata a Domenica Live di Barbara D’Urso. Questa volta, però, ha preferito prenderla alla larga: “La Corte costituzionale ci ha impedito di licenziare quelli che fanno i furbetti del cartellino, perché bisogna avere il parere di tutte le regioni senno non vale. Ma così il Paese è fermo, bloccato. La gente non ne può più di come vanno le cose adesso”.

Cosa ha scritto la Consulta nella sentenza
Le cose non stanno esattamente come le hanno spiegate il premier e i suoi colleghi di partito. Prima della spiegazione di Villone, infatti, lo si leggeva nella sentenza della Corte Costituzionale. Bastava leggerla. La Consulta ha bocciato la legge delega (su cui si basano i decreti attuativi) perché non ha previsto un’intesa piena da raggiungere nella Conferenza Stato-Regioni: per i decreti attuativi ci si è limitati a prevedere solo un “parere”, mentre invece va cercata “un’intesa”. Già oggi, del resto, lo Stato può intervenire in libertà proprio sui temi su cui la Consulta ha accolto l’incostituzionalità della legge Madia, ma si tratta – avvisano i giudici – di materie concorrenti “legate in un intreccio inestricabile, dove è necessario che il legislatore statale rispetti il principio di leale collaborazione e preveda adeguati strumenti di coinvolgimento delle Regioni (e degli enti locali), a difesa delle loro competenze”. Su organizzazione, proprietà, dirigenti, partecipate, insomma, le Regioni avranno ancora voce in capitolo e potranno impugnare gli atti imposti senza concerto. Anche perché i 4 decreti attuativi colpiti dalla sentenza non riguardano competenze che la riforma attribuisce esclusivamente allo Stato (infrastrutture, energia etc.). La “leale collaborazione” tra Stato, Regioni ed Enti locali andrà perseguita anche con la nuova costituzione.

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