Quasi nessuno vorrebbe causare sofferenza agli animali: ormai il sentimento comune vuole proteggere dalla violenza anche loro. Inoltre, la maggior parte delle persone dice di “amarli”. Che negli allevamenti intensivi e nei macelli si nasconda però una profonda sofferenza per gli animali non si può certo negare. Eppure la stragrande maggioranza delle persone mangia carne.

Quali sono i meccanismi psicologici che ci fanno dire “amo gli animali” e che poi non ci fanno pensare a loro mentre li mangiamo? Generazioni di vegetariani e vegani si sono fatti questa domanda. Ma non sono i soli: anche due ricercatori dell’Università di Oslo, in Norvegia, hanno provato a trovare una risposta scientifica, per capire quali meccanismi di rimozione entrino in atto e in quali contesti.

Con la loro ricerca initolata Carnivori per dissociazione hanno provato che il modo in cui viene presentata la carne e il nome con cui la si chiama modificano significativamente la reazione delle persone di fronte al cibo. In fondo tutti sanno bene come sono fatti gli allevamenti intensivi e cosa accade nei macelli, ma ci rifiutiamo spesso di voler vedere o sentire.

Gli studi condotti da Jonas Kunsta e Sigrid Holec sono stati cinque, tra Norvegia e Stati Uniti, e hanno coinvolto più di 1000 volontari, tutti onnivori a cui sono stati proposti in modi diversi cibi con carne e alternative vegetariane. Lo scopo era vedere in quali contesti sarebbe stato declinato il piatto con carne, per capire quali sono i meccanismi di rifiuto o di rimozione più diffusi.

Ai soggetti dell’esperimento sono stati proposti menù dove semplicemente la parola bistecca o cotoletta veniva cambiata con le parole mucca e maiale, oppure pubblicità di carne in cui veniva utilizzata come immagine quella di un animale vivo. Questa variazione di linguaggio e immagini ha ridotto notevolmente l’interesse e la scelta per le pietanze proposte, di solito chiamate con nomi non collegabili a parti specifiche degli animali.

In altri casi l’impatto è stato visivo: alcuni maiali arrostiti sono stati mostrati interi, con la testa o senza, e nel caso della presenza di testa si è registrata una maggiore empatia e disgusto, con aumento della scelta verso il piatto vegetariano. In un altro esperimento cosce di agnello sono state accostate a un’immagine di un piccolo agnello vivo, ricordando quindi chiaramente l’animale da cui provenivano.

In tutti i casi più il piatto di carne veniva accostato all’idea di un animale e più i volontari sceglievano di mangiare altro. “Carni maggiormente lavorate rendono più facile distanziarsi dall’idea che essa provenga da un animale”, spiega il responsabile della ricerca, Jonas Kunsta. Sempre secondo Kunsta meno la gente pensa che il cibo fosse prima un animale e più si sente a suo agio nel mangiarlo. Questo distanziamento avviene sia dal punto di vista del linguaggio che visivo, per questo nei suoi studi sono stati fatti esperimenti su entrambi i fronti.

Ciò che hanno scoperto i due norvegesi non è certo rivoluzionario, molti psicologi hanno teorizzato questo distanziamento col termine “dissonanza cognitiva”, ma questo è il primo test scientifico che va a provarne l’esistenza e la profondità, che mette in luce il grande paradosso della carne: vogliamo mangiarla perché ci piace, ma ci sentiamo estremamente a disagio a sapere da dove viene o a vedere come si produce. Cosa che nessun animale carnivoro prova. E questo dovrebbe farci riflettere.

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