Bob Dylan ha vinto il Premio Nobel per la letteratura 2016. Questa è una notizia di proporzioni sbalorditive. Perché? Perché per la prima volta la canzone viene considerata espressione artistica di primo piano, e non brutta e furba sorella della poesia. La motivazione del riconoscimento, infatti, recita così: «Per aver creato nuove espressioni poetiche all’interno della grande tradizione della canzone americana». La canzone dunque è considerata espressione letteraria autonoma, questo è il punto; non solo Dylan è il primo cantautore ad aver vinto il Nobel per la letteratura: lo ha vinto per quella forma letteraria esclusiva che è la canzone.

Chi segue queste pagine ricorderà diversi miei scritti che hanno trattato questo tema; o l’intervista a Guccini effettuata per un lavoro sul canone letterario della canzone d’autore. Soprattutto in quest’ambito, il Nobel a Dylan ha da noi un’enorme importanza storica: l’Italia è stata fino a oggi molto restìa a considerare la canzone come forma letteraria. “Certo, perché c’è anche la musica” potrebbe dire qualcuno. Ma nemmeno il teatro esaurisce la propria scrittura sulla pagina scritta. Eppure, a chi verrebbe mai in mente che Shakespeare o Goldoni non facciano letteratura? E che l’Amleto o La locandiera non siano opere letterarie?

Di sicuro l’oggetto artistico “canzone” contempla al suo interno diversi generi: alcuni sono più letterari di altri. Il fatto è che, a livello critico, accademico e giornalistico, musica e letteratura in Italia sono purtroppo più lontane di quanto si possa credere. E che questo succeda nel nostro Paese, con la nostra storia e il nostro passato, è letteralmente assurdo.

Da una parte c’è il mondo delle lettere, dove, se è prassi consolidata giudicare in genere non letterariamente validi certi testi dei libretti d’Opera, neanche i cantautori godono ancora oggi di particolare considerazione. A parte qualche caso isolato di insegnanti che si soffermano per qualche lezione sulle pochissime pagine in cui sono relegati nelle antologie scolastiche, e qualche sparuta traccia all’esame di Maturità, il canone letterario italiano esclude i cantautori dal novero degli artisti da prendere in considerazione. Strutturalmente si fa ben poco, basti pensare che, come ho già scritto altrove, il sistema universitario italiano non fornisce un’adeguata preparazione ai professori, che per il nostro ordinamento possono insegnare materie umanistiche pur essendo del tutto digiuni di nozioni musicali.

Le cose non vanno meglio per ciò che riguarda la maggior parte dei critici, ma soprattutto dei giornalisti musicali italiani e di certi addetti ai lavori, che guardano con sospetto l’accostamento dei cantautori alla letteratura. Il più delle volte, per loro il mondo delle lettere sembra essere troppo opprimente, mentre invece la canzone è “free” – o, peggio, “easy” –, contempla più la sociologia che le discipline estetiche, e, nei casi estremi, non andrebbe presa troppo sul serio. L’Italia, anche in alcune delle più alte e insospettabili sfere accademiche o dei media, è un paese di tifosi; questo, invece, è un argomento su cui mi sembra che valga la pena riflettere.

Una cosa è certa: da oggi qualcosa è cambiato davvero. E allora forse è giusto chiudere con le parole di Francesco De Gregori: «È una notizia che mi riempie di gioia, vorrei dire non è mai troppo tardi. Il Nobel assegnato a Dylan non è solo un premio al più grande scrittore di canzoni di tutti i tempi ma anche il riconoscimento definitivo che le canzoni fanno parte a pieno titolo della letteratura di oggi e possono raccontare, alla pari della scrittura, del cinema e del teatro, il mondo e le storie degli uomini». Come dargli torno?

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