Visti i loro vice, chiunque vinca teniamoci ben stretto il titolare e speriamo che nulla gli accada: Tim Kaine, il democratico, e Mike Pence, il repubblicano, passano i 90’ del loro dibattito tv ad annullarsi ciascuno nella personalità del loro boss. Come la pensino davvero loro si capisce solo quando l’ottima moderatrice, Elaine Quijano, giornalista di origine filippina della Cbs News, la più giovane a gestire un dibattito nazionale negli ultimi 28 anni, li sollecita sul personale: la religione. Per il resto, è tutto un ‘Hillary pensa’ e ‘Donald dice’; e un intreccio di attacchi reciproci mai l’un l’altro, ma sempre all’altrui capofila.

In realtà, l’atteggiamento dei due vice non è lo stesso: Pence – si vede – studia un po’ da presidente, magari fa già un pensierino a candidarsi per la nomination nel 2020, se Trump non ce la dovesse fare – o se non reggesse il doppio mandato -; Kaine, invece, non avrebbe mai immaginato d’arrivare fin qui e non pare nutrire ambizioni, se non quella di essere un buon gregario del suo capitano.

Così, i due vice giocano a parti rovesciate rispetto ai loro boss: Kaine è più aggressivo, con lampi d’energia negli occhi; Pence ha la forza tranquilla: gruppi d’ascolto e un sondaggio a caldo Cnn/Orc gli danno la vittoria, 48 a 42%, anche se le battute più efficaci sono del democratico.

Scontati i commenti dei due candidati a fine dibattito. “Mike ha vinto alla grande: dobbiamo essere orgogliosi di lui”, firmato Donald. E “Non potrei essere più orgogliosa di Tim”, firmato Hillary. Addirittura, il partito repubblicano aveva ‘postato’ le congratulazioni a Pence in anticipo: una svista (o una sorta di premonizione).

Sul palco della Longwood University di Farmville in Virginia, con lo stesso allestimento già usato per il primo dibattito presidenziale il 26 settembre alla Hofstra University nello Stato di New York, Pence e Kaine si sono presentati a cravatte invertite, blu il repubblicano, rossa il democratico, entrambi con completi scuri, camicia chiara, spilletta sul bavero sinistro: Pence con i capelli bianchi ancora folti e in ordine; Kaine con i capelli grigi più radi e meno controllati. Il democratico giocava in casa perché è stato sindaco di Richmond, governatore della Virginia ed è ora senatore dello Stato.

Per i due vice, era l’occasione per farsi conoscere perché il 40% degli americani manco sa chi sono, non ne conosce i nomi – ma quel 40% di sicuro non guardava il dibattito. I telespettatori hanno scoperto due ligi numeri due, non due leader. Solo verso la fine, alle domande sulla loro fede e sull’aborto, i due hanno entrambi risposto con accenti personali e convinti: Kaine è cattolico, è stato missionario in Honduras e ha raccontato la sua difficoltà a gestire la pena di morte da governatore; Pence è un cattolico ‘convertito’ evangelico ed è un crociato ‘pro vita’.

I temi del confronto sono stati l’immigrazione, la sicurezza, la lotta contro il terrorismo, l’economia – poco – e l’assistenza sanitaria, gli errori fatti e gli insulti lanciati nella campagna. Kaine ha così contestato a Trump le offese e le discriminazioni contro i messicani, i musulmani, le donne; Pence ha ricordato il “cesto di miserabili” detto dalla Clinton di metà dei sostenitori di Trump.

Kaine s’è dichiarato “spaventato a morte” dalla prospettiva di Trump comandante-in-capo. Pence ha giudicato “brillante” l’abilità di Trump nel pagare meno tasse possibile, o nel non pagarle del tutto, e ha rinnovato l’impegno a cancellare la riforma sanitaria del presidente Obama, l’‘Obamacare’, che il marito di Hillary, Bill, facendo una gaffe, aveva ieri definito in un comizio nel Michigan “la cosa più folle del mondo”.

Per Kaine, Trump ha il suo Monte Rushmore personale, con le effigie di Vladimir Putin, Kim Jong-un, Saddam Hussein e Muammar Gheddafi. “Questa se l’è preparata a lungo”, gli ha fatto eco, un po’ invidioso, Pence, che cercava di difendere le posizioni di Trump su Putin – “E’ un leader più forte di Obama” – o sul nucleare.

Lì, Kaine ha ricordato le tesi del magnate sulla proliferazione nucleare, a favore che Arabia saudita, Giappone e Corea del Sud si dotino della bomba (“Questo è più sicurezza?”, ha chiesto, senza ottenere risposta). E ha pure ricordato che Ronald Reagan era preoccupato che qualcuno come Trump diventasse presidente, quando ammonì che “qualche idiota o maniaco poteva scatenare un evento catastrofico” con le armi nucleari.  Pence ha contrattaccato sulle responsabilità della Clinton nel Medio Oriente e nell’accordo nucleare con l’Iran. Entrambi hanno criticato l’altrui Fondazione.

Alla fine, stretta di mano e ritorno dietro le quinte. Domenica 9, toccherà di nuovo ai leader, non alle loro controfigure.

TRUMP POWER

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