“Sono una insegnante supplente. Sono supplente di me stessa”. La straordinaria storia di P., 42 anni, italiana, maestra elementare assunta in ruolo dopo anni di precariato il 1° settembre scorso e licenziata il 22 gennaio 2016, chiamata tre giorni dopo a fare la supplente di se stessa, dunque con contratto provvisorio a colmare l’assenza dell’altra sé fino al prossimo 18 giugno, pare un non agevole caso di psichiatria burocratica e conclude una breve rassegna dei cavilli che inguaiano la vita, a volte l’annientano, sicuramente diagnosticano che la Pubblica amministrazione ha un male endemico e forse incurabile. Anche P. sceglie l’anonimato per timore che la pubblicità della sua vicenda possa influenzare negativamente gli sviluppi dei ricorsi giudiziari.

La storia ha inizio al sud tanti anni fa in un campo di nocciole.
Facevo il penultimo anno del magistrale e a settembre, per dare aiuto alla famiglia, sono andata a raccogliere frutta. Lavoro stagionale da bracciante agricola che ho svolto anche negli anni seguenti.

Accade però…
Accade che l’Inps svolge una serie di accertamenti sulle giornate di lavoro effettive e io mi trovo in difetto.

Come bracciante agricola ha più contributi delle giornate lavorate.
Mi denunciano, si fa un processo.

Il processo finisce nel 1995.
Sì, 21 anni fa. Pago una ammenda e la storia si chiude lì.

La storia però si riapre.
Nel novembre del 2013, dopo anni che avevo lasciato i campi e insegnavo da precaria, mi chiamano in segreteria e mi dicono che dai tabulati in loro possesso risulta questa condanna che non avevo riferito al momento di dichiarare i miei carichi penali passati. Mi sforzo di ricordare quale fosse quella condanna, chiamo subito il mio avvocato che mi tranquillizza: domani chiedi il certificato penale e vedrai che risulta nulla. Hai avuto solo una contravvenzione, non hai taciuto condanne. Ringrazio e riferisco al dirigente che mi dice che mi avrebbe però dovuto comminare una piccola sanzione: una multa pari a due giorni di lavoro. Accetto e pare che la cosa finisca lì.

Il peggio doveva accadere.
A settembre, dopo un decennio di precariato, sbattuta da una scuola all’altra della provincia, sono convocata per l’assunzione in ruolo. È un grande giorno, firmo, sono felice.

Ma il giorno dopo?
Ventiquattro ore passano e mi riconvocano: c’è da notificarmi un atto con cui il Provveditorato apriva un nuovo provvedimento disciplinare nei miei confronti.

Nuovo il provvedimento, vecchio e superato il motivo.
Sempre quello, sempre la raccolta della frutta, la multa di 25 anni fa, il fatto che non l’avessi dichiarata al momento dell’assunzione.

Eppure era già stata convocata e aveva dato spiegazioni esaurienti e documentato l’assenza di condanne.
Esatto. Però non bastava. Ho dovuto ingaggiare un avvocato e illustrare le mie giustificazioni.

Intanto però a scuola andava da insegnante di ruolo.
Il mio legale mi dice: un mese e sapremo. Invece ne passano quattro.

E arriviamo a gennaio scorso.
Il 22 di gennaio la notifica: ero stata depennata dal ruolo. Licenziata, cacciata via per indegnità. Lei non sa cosa si prova, non può immaginare la mia condizione. Licenziata per non aver fatto nulla, per non aver prodotto uno stupido certificato penale che avrebbe attestato il nulla. E sebbene quel certificato l’avessi poi consegnato in segreteria la forma aveva subito un vizio assoluto che mandava in fumo il mio lavoro, la mia pensione, il mio futuro.

La sua vicenda ha un approdo ancor più lunare.
Devo invece dire grazie alla Cgil che mi invita a presentare subito, alla segreteria della scuola che mi aveva con dispiacere dovuto licenziare, una domanda di supplenza fuori dagli elenchi. E così, essendo esaurite le graduatorie, chiamano me a sostituire l’insegnante licenziata, che sarei sempre io.

L’incredibile si fa certo.
Almeno riesco a campare, a pagare il fitto di casa, a mangiare e ad avere i soldi per affrontare il processo del lavoro nel quale ho naturalmente chiesto il reintegro.

Lei è supplente di se stessa.
Io supplisco me. Mi siedo in cattedra, e la sedia è quella che mi hanno tolto. È un crudele gioco dell’oca: ho 42 anni, un figlio grande. Sono tornata indietro di vent’anni, di nuovo precaria, di nuovo senza diritti, e con la paura che questa storia mi insegua per tutta la vita.

da il Fatto Quotidiano del 27 febbraio 2016

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