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In una lectio magistralis tenuta all’università di Torino, nel giugno del 2015, Umberto Eco scatenò un ampio dibattito pubblico affermando: “I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. È l’invasione degli imbecilli“. Molti furono coloro che insorsero contro quella che ritennero un’arrogante manifestazione di cultura élitaria da parte del Maestro, non avendo neppure percepito il senso di quella sua semplice constatazione, tesa a stigmatizzare piuttosto il fatto che, per ripetere la metafora di Alex Horowitz, il cittadino del ventunesimo secolo somiglia sempre più a una fulminea lepre della tecnologia, la quale si comporta e comunica come una tartaruga dell’etica, cioè disconosce o ignora volontariamente i limiti e i rischi etico-dialogici delle opportunità tecniche offertegli dagli strumenti avanzatissimi che ha in mano, senza perciò migliorare la qualità di ciò che ci scambia. In ogni caso, simili scomposte e chiassose reazioni sono sintomatiche esse stesse d’imbecillità, intesa questa come condizione umana di cui si hanno continue manifestazioni su scala anche vasta e nei campi più disparati, vita politica compresa, diffusa statisticamente in modo uniforme nel tempo e nello spazio, senza distinzioni di titolo di studio, di professione, di reddito; con alcune concentrazioni statistiche, tuttavia, di cui sarebbe interessante ricercare ragioni e modalità di sviluppo.

Bisogna stare attenti agli indizi, perché gli imbecilli sono pericolosi, molto di più dei mascalzoni, perché se non ci fossero tanti imbecilli in giro non sarebbe così facile trovare un furbone che li seduce. Non sempre, per individuarli, basta l’aspetto fisico, poiché spesso esibiscono facce convincenti, fronti inutilmente spaziose, tratti d’eleganza, magari posticcia. Più significativi i tic verbali e le frasi fatte: se afferma che il liberalismo è di sinistra; se parla della famiglia e della religione, della scuola e dei bambini, tirando fuori i “valori”; se dice che Roberto Benigni ha avvicinato il pubblico alla Divina commedia, o che Luciano Pavarotti i giovani alla lirica; se pensa di dissimulare una patente mutazione genetica definendola un mero ribilanciamento; beh, questi sono indizi gravi d’imbecillità, ma ancora insufficienti, da soli, per una definizione della categoria, generale e dettagliata a un tempo. Occorre, dunque, rivolgere altrove lo sguardo.

Una ricerca dei sintomi di imbecillità catalogati in passato, condotta in ambito filosofico, lascia francamente delusi: tutti i grandi interrogativi dell’uomo, quali la morte, l’esistenza e l’essenza, la vita, l’essere e il non essere, hanno trovato spazio in vasti sistemi interpretativi; non anche, però, l’imbecillità, che il suo filosofo lo sta ancora aspettando. Ciò non significa, comunque, che diversi pensatori non abbiano girato intorno alla questione; che almeno talvolta non l’abbiano sfiorata. Si pensi, per esempio, a Platone: cosa sarebbe il suo celebre mito della caverna nella Repubblica, se non la storia di una banda d’imbecilli, che scambiano lucciole per lanterne? E che dire di Cartesio? Cos’è il suo “Cogito, ergo sum”, se non una macchina da guerra contro l’imbecillità? Non s’è mai visto, infatti, un imbecille che pensa, là dove, invece, li si sente continuamente esclamare: “Non ci avevo pensato”. E il dubbio che Cartesio pone al centro della propria dimostrazione, non è forse l’esatto opposto dell’approccio tipico dell’imbecille? Sottolineò, in proposito, Voltaire che “il dubbio non è piacevole, ma la certezza è ridicola. Solo gli imbecilli sono sicuri di ciò che dicono”.

È paradossale, insomma, che l’imbecillità nella teoria filosofica sia niente, quando basta interessarsi alla storia per rendersi conto, invece, di come ne fioriscano gli esempi. Si pensi a Luigi XVI che nel suo diario del 14 luglio 1789 aveva annotato: “Oggi niente…”. Ma si sa, con i re non c’è da stupirsi: nulla v’è di peggio del ‘figlio di’ che succede al padre, basti vedere i danni che subiscono le aziende quando il junior eredita l’impero senza averne le competenze.

Per dirla con Pino Aprile, se “l’intelligenza, per le società umane, è sabbia negli ingranaggi”, che rischia di fare inceppare i meccanismi, “l’acume, o semplicemente il buon senso, portano confusione”; ciò spiega la gran quantità d’imbecilli chiamati a ricoprire ruoli decisivi, eppur capaci di calarsi subito nella parte, i quali, forse convinti del cataclisma che di lì a poco scateneranno, si sentono in obbligo di pronunciare almeno una frase memorabile. Fortunatamente, la pochezza dei molti è controbilanciata dalla genialità di alcuni, si pensi a Mao Tsetung, il “libretto rosso” delle cui massime, ancora pargolo pieno d’ambizioni, vidi, in fotografia, agitare, ma mai leggere, da folle oceaniche. Quale messe d’insegnamenti! Quale concentrato di sapere! A ogni pagina una sensazionale scoperta; il frutto di una sapienza millenaria. Spigolo: “Se il partito non applica una politica giusta, applica una politica errata”; “Se non si applica una politica consapevolmente, la si applica ciecamente”; “Dove la scopa non arriva, la polvere da sola non se ne va”. Tutte verità sacrosante! “Quali sono i nostri amici e quali i nostri nemici? Ecco un problema che nella guerra ha un’importanza capitale”.

Giustissimo: sarebbe dolorosissimo credere d’aver vinto e accorgersi,dopo il combattimento, d’aver sbaragliato gli amici anziché i nemici. “Tra gli scopi della guerra, la distruzione delle forze nemiche è lo scopo principale”, profonda verità: sarebbe un errore bombardare il proprio esercito e circondare di affettuose attenzioni l’esercito nemico. “È del tutto falso asserire che prevalgano gli errori, quando prevalgono i successi”, l’asserzione è un po’ audace; anche peggio sarebbe asserire, però, che prevalgano i successi, quando prevalgono gli errori.

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