Tra le economie sviluppate, l’Italia si conquista un poco invidiabile secondo posto nell’indice della disuguaglianza, dietro solo al Portogallo. E arriviamo a conquistare il triste primato di Paese più iniquo sotto i profili dell’inclusione lavorativa e dell’accesso digitale. A certificarlo è il rapporto “Sustainable economics. Mind the inequality gap”, redatto dagli analisti della banca d’affari Morgan Stanley.

La classifica elaborata dal documento, a partire dai dati Ocse, prende in esame le venti economie più avanzate al mondo. Lo studio considera diversi valori, come la differenza di genere nelle retribuzioni, la diffusione dei Neet, i part-time involontari, l’accesso a internet. Dietro a Portogallo e Italia, tra i Paesi più iniqui, si piazzano Grecia, Spagna e Stati Uniti. Ribaltando la classifica, invece, le nazioni più virtuose sono quelle scandinave: nell’ordine, Norvegia, Svezia e Finlandia.

Nella conquista della poco onorevole medaglia d’argento, per l’Italia ha pesato il parametro dell’inclusione lavorativa, dove il nostro Paese vince la coppa della disuguaglianza. Su questo primato, incidono in particolare due dati. L’Italia vince il record per la quota di part time involontari, cioè le persone che devono seguire un orario di lavoro ridotto non per scelta, ma per necessità: la percentuale arriva al 6,6%, sei volte il risultato di Norvegia e Usa. Tra i giovani dai 16 ai 24 anni, nel nostro Paese il 26,1% sono Neet, cioè ragazzi che non studiano e non lavorano, il risultato peggiore dopo Grecia e Spagna. Anche sul fronte dell’accesso a internet, l’Italia registra il primato in negativo. Si parla del 62% della popolazione connessa, mentre nella virtuosa Scandinavia si viaggia su percentuali che vanno dal 92 al 96%.

Al di là della classifica, il rapporto Morgan Stanley spiega che “i bassi salari e i debiti delle famiglie nel settore privato hanno contribuito ad allargare la disuguaglianza nei Paesi a economia sviluppata”. Risultato: “Dagli anni Ottanta, il reddito delle famiglie più povere è aumentato di circa 15%, mentre quello delle famiglie più ricche del 50%”. A partire da questi dati, lo studio affronta il tema della correlazione tra disparità e crescita economica. “La relazione è complessa e poco chiara: la crescita può creare disuguaglianza, ma la disuguaglianza può anche stimolare la crescita”, esordisce il documento. Ma poi avverte: “Quando la disuguaglianza diventa radicata e persistente, può portare a performance economiche più povere”. E per spiegare nel concreto il concetto, lo studio fa l’esempio anche del nostro Paese: “Tra 1990 e 2010, si stima che l’aumento della disuguaglianza abbia ridotto la crescita economica di oltre 10 punti percentuali in Nuova Zelanda e Messico, 9 punti in Regno Unito, Finlandia e Norvegia e tra 6-7 punti in Stati Uniti, Italia e Svezia”.

Un capitolo è riservato anche all’impatto delle migrazioni sulla disuguaglianza, un tema di stretta attualità soprattutto in Italia. “In una prospettiva di lungo periodo, le migrazioni sono un fattore positivo nelle economie sviluppate inclini all’invecchiamento – spiegano gli analisti Morgan Stanley – Il tasso di anzianità, che misura il rapporto tra gli over 65 e la popolazione tra 15 e 64 anni, aumenterà rapidamente in molte nazioni europee, soprattutto Germania e Italia, e anche negli Usa, nei prossimi venti anni, con ulteriori incrementi in seguito”. Lo studio sostiene che i migranti potranno essere “necessari” per fare fronte alle sfide legate all’invecchiamento della popolazione: “Potranno aiutare a soddisfare la domanda di lavoro (inclusi i servizi agli anziani), colmare le lacune di competenze, dare una spinta occupazionale, portare innovazione e diversità culturale”.

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