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Tra qualche settimana molti studenti cominceranno l’università. I loro genitori che si sono laureati circa trent’anni fa potevano permettersi di sbagliare facoltà, errore concesso in un’economia in crescita. Oggi è molto, molto più pericoloso fare errori. Purtroppo migliaia e migliaia di ragazzi in autunno si iscriveranno a Lettere, Scienze politiche, Filosofia, Storia dell’arte.

È giusto studiare quello per cui si è portati e che si ama? Soltanto se si è ricchi e non si ha bisogno di lavorare, dicono gli economisti. Se guardiamo all’istruzione come un investimento, le indagini sugli studenti dimostrano che quelli più avversi al rischio, magari perché hanno voti bassi e non si sentono competitivi, scelgono le facoltà che danno meno prospettive di lavoro, cioè quelle umanistiche.

I ragazzi più svegli e intraprendenti si sentono sicuri abbastanza da buttarsi su Ingegneria, Matematica, Fisica, Finanza. Studi difficili e competitivi. Ma chi li completa avrà opportunità maggiori, in Italia o all’estero. Un paper del centro studi CEPS, firmato da Miroslav Beblavý, Sophie Lehouelleur e Ilaria Maselli ha calcolato il valore attualizzato delle lauree, tenendo conto anche del costo opportunità (gli stipendi a cui rinuncio mentre studio invece di lavorare) delle diverse facoltà nei principali Paesi europei.

Guardiamo all’Italia: fatto 100 il valore medio attualizzato di una laurea a cinque anni dalla fine degli studi, per un uomo laureato in Legge o in Economia è 273, ben 398 se in Medicina. Soltanto 55 se studia Fisica o Informatica (le imprese italiane hanno adattato la propria struttura su lavoratori economici e poco qualificati). Se studia Lettere o Storia, il valore è pesantemente negativo, -265. Cioè fare studi umanistici non conviene, è un lusso che dovrebbe concedersi soltanto chi se lo può permettere. L’Italia è il Paese dove questo fenomeno è più marcato.

Ma finché gli “intellettuali pubblici” su giornali e tv continueranno a essere solo giuristi, scrittori e sociologi, c’è poca speranza che le cose cambino.

 

Dopo aver parlato con una delle autrici del paper che cito in questo articolo, ho apportato una correzione che non modifica le conclusioni (anzi, le rafforza) ma che è rilevante: le tabelle sul valore attualizzato delle lauree non si riferiscono al valore in euro, come può sembrare e come a me è sembrato, ma alla differenza rispetto alla media. I ricercatori fissano a 100 l’NPV medio, cioè il valore attualizzato del titolo di studio (calcolato in euro e poi standardizzato a 100). Quindi se un laureato in materie umanistiche ha un NPD -265 significa che il valore della sua laurea è negativo di oltre due volte il valore medio di un’educazione universitaria. Chiedo scusa per l’errore – che dimostra come in matematica e statistica non siamo mai abbastanza preparati – ma le tabelle riassuntive dello studio sono un po’ scarse nella legenda. Adeguo quindi il post di conseguenza. E ho aggiunto il link al paper così ve lo potete leggere direttamente. 

Nei prossimi giorni torneremo sull’argomento sul giornale, visto che sembra suscitare un vivace dibattito.

Il Fatto Quotidiano, 12 agosto 2015 (modificato il 13 agosto alle 18.35)

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