L’esercizio di valutazione della ricerca (VQR 2004-10), realizzato dall’Agenzia nazionale di valutazione dell’Università e la Ricerca, ha inciso in maniera ampia, crescente nel tempo, sui meccanismi di finanziamento delle università. Questo a dispetto del fatto che i metodi usati per la valutazione, la trasparenza della gestione dei dati, i percorsi seguiti per la nomina dei valutatori, ecc. ecc., sono oggetto di innumerevoli controversie. Il nuovo esercizio di valutazione sta per essere lanciato, e a quanto pare da un punto di vista tecnico la situazione non è destinata a migliorare. D’altronde molti sostengono che chi dirige l’agenzia non debba essere un “tecnocrate” esperto di valutazione: e, infatti, i risultati si sono visti.

Chi scrive non riesce a trovare una risposta a una domanda semplice: perché non iniziare a disegnare un esercizio di valutazione partendo dalle esperienze di altri Paesi? Perché non sfruttare a vantaggio del Paese il fatto di essere arrivati in ritardo a implementare la valutazione ex-post su scala nazionale? Chi scrive ha anche grandi perplessità che un esercizio di valutazione di questo tipo sia necessario e serva a migliorare la qualità della ricerca di un paese; ma comunque una volta deciso di farlo almeno bisognerebbe rispettare degli standard tecnici minimali. Invece si preferisce ripartire da zero, magari per andare a esplorare i numeri negativi o magari i numeri complessi. D’altronde questo è un paese di navigatori, allenatori di calcio e valutatori della domenica, dunque, i candidati ai prossimi disastri abbondano sempre.

I risultati della valutazione stanno iniziando ad avere un impatto significativo (e lo avranno ancora maggiore nel tempo) sulla distribuzione del finanziamento alle università. L’aumento del peso della cosiddetta quota premiale (si tratta del nome orwelliano dato a una parte del fondo ordinario e non di risorse aggiuntivo) ha penalizzato i grandi atenei del Centro-Sud. Molti atenei del Centro Sud si trovano ora in condizioni molto critiche e, per com’è utilizzata la valutazione dal decisore politico, nel futuro questo squilibrio è chiaramente destinato ad ampliarsi. In pratica la valutazione equivale a una deresponsabilizzazione del decisore politico che, mascherandosi dietro dei risultati apparentemente tecnici, delega alla valutazione scelte prettamente politiche.

Questo accade perché gli atenei di tutta Italia sono messi in competizione tra loro, fatto che sta generando un vantaggio cumulativo di alcuni a di scapito di altri. Nel Regno Unito, in genere preso a modello per la politica universitaria, non accade lo stesso: università che appartengono a diverse macroregioni – Inghilterra, Scozia, Irlanda del Nord e Galles – non competono tra loro per i fondi associati alla valutazione. Un minimo di buon senso dovrebbe indurre il ministro a fare altrettanto: dividere la quota premiale in tre parti, assegnare ognuna a tre aree geografiche (Nord, Centro, Sud e Isole) e all’interno di ciascun’area ripartire i fondi sulla base dei risultati della valutazione. Sarebbe un primo passo per evitare l’inutile e dannoso accentramento delle risorse su pochi (al Nord) con conseguente impoverimento d’intere aree geografiche (al Sud): questo è (sarabbe) il compito della politica, piuttosto che quello di implementare il risultato di classifiche basate su pseudo-analisi tecniche.

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