1) Numeri. Calcolando le regioni vinte e quelle perse, non c’è dubbio che le elezioni le abbia vinte il Pd sul centrodestra 5-2, mentre i 5Stelle continuano a non governarne nessuna. Contando le regioni strappate agli avversari, c’è un perfetto equilibrio rispetto a cinque anni fa: 5 al Pd e 2 al centrodestra (con lo scambio incrociato Liguria-Campania). Quindi nessun effetto-Renzi, anzi: alle regionali del 2010 il Pd di Bersani fece molto meglio di lui, con 1 milione di voti in più (26% contro 25, e allora il centrosinistra non aveva ancora raso al suolo i suoi alleati, dall’Idv alle sinistre radicali). E il paragone con il risultato di un anno fa alle Europee è ancor più impietoso: il Renzi 2015 è la metà del Renzi 2014 quanto a percentuale (25 contro 40,8), e dimagrisce di 2 milioni di voti in un solo anno. Il che non vuol dire ancora né crisi né declino: ma è una bella spuntatina al crine di Sansone e alla fortuna di Gastone, un po’ meno bravo bravissimo e molto meno fortunatissimo in verità. Un bagno forzato di umiltà, un brusco ritorno sulla terraferma.

2) Governo. “Il governo non c’entra”, dicono il premier e i suoi. Sulla carta è vero: non si votava per Renzi (per la verità non si è mai votato per Renzi, salvo alle provinciali e alle comunali di Firenze). Ma nemmeno un anno fa, alle Europee: eppure lui si intestò quel trionfo come un premio al suo governo, che peraltro non aveva ancora fatto nulla, se non annunciare gli 80 euro. Ora, questa è la prima elezione dopo 16 mesi di governo; e il premier e i suoi ministri si sono spesi allo spasimo in campagna elettorale. Soprattutto per le due uniche candidate renziane: la Paita, stesa da tal Toti, e la Moretti, asfaltata da Zaia. vincitori, invece, o rappresentano la vecchia “ditta” (Rossi in Toscana, Marini in Umbria, Ceriscioli nelle Marche), o hanno giocato e vinto da soli (Vincenzo De Luca in Campania e Michele Emiliano in Puglia).

3) Conseguenze. Nel 2000 il centrosinistra perse in 8 regioni su 15 e il premier D’Alema si dimise all’istante. Ora la situazione è diversa, ed è una sciocchezza chiedere le dimissioni del governo. Ma anche dire che non cambia nulla. Intanto gli italiani avvertono il premier che non sono soddisfatti del suo primo anno a Palazzo Chigi, tutto chiacchiere e distintivo. Eppoi l’arroganza dell’uomo solo al comando non paga, anzi spaventa. Tantopiù se un elettore su due non va a votare: in Spagna vince Podemos, in Italia trionfa Astenemos. Con che faccia Renzi riforma da solo la legge elettorale, lo Statuto dei lavoratori, la scuola, financo la Costituzione col 25% dei votanti, pari al 13 dei cittadini attivi? Chi rappresenta poco più di un italiano su 10 non può comportarsi come l’idolo delle masse.

4) Paradossi. Renzi perde nelle due regioni dove più avrebbe voluto vincere, mentre strappa alla destra l’unica regione che le avrebbe volentieri lasciato: la Campania. Lì ora gli tocca dichiarare decaduto De Luca e spiegare perché mai ha candidato e sostenuto uno che non può governare, avviando una battaglia di carte bollate destinata a screditare più Matteo che don Vincenzo. La classica vittoria di Pirro, anzi di pirla.

5) Alibi. Anziché fare autocritica sui candidati sbagliati in Liguria, Veneto e Campania e sull’agenda sballata del governo, Renzi e il suo politburo battono il mea culpa sul petto degli altri: i soliti “gufi e masochisti” della sinistra che gli avrebbero rubato la Liguria. Se questi gaglioffi sapessero far di conto, scoprirebbero che Toti ha staccato la Paita di 7 punti, mentre di suo Pastorino ha portato a casa il 4% (il resto è di Tsipras, che si sarebbe presentato comunque). E poi: se il Pd passa dal 40,8 al 25 su scala nazionale, tallonato in molte regioni e città dai 5Stelle, e perde 2 milioni di voti in un anno, sarà mica colpa dei 62 mila elettori di Pastorino? Forse la colpa è di un partito che ha smarrito la vecchia identità, senza costruirsene una nuova, e anzi mettendo in fuga con le scelte di governo pezzi del suo blocco sociale (insegnanti, studenti, lavoratori, sindacalisti, società civile sensibile alla legalità). E poi: se davvero la sconfitta in Liguria fosse colpa di Pastorino, dunque non conta, allora non varrebbe neppure la vittoria in Campania, che sarebbe merito di De Mita e delle liste impresentabili, senza i cui voti De Luca avrebbe perso con Caldoro. O De Mita e l’ex sputacchiere Barbato sono due architravi del “nuovo Pd”?

6) Partito della Nazione. Il sogno (o l’incubo) di un partitone centrista e postideologico tipo Dc, che si piazza al centro e catalizza voti da destra e sinistra, esiste solo nella fantasia malata di chi l’ha concepito. Gli elettori – a dispetto della pretesa giacobina di rieducarli, raddrizzando le gambe all’Italia tripolare uscita dalle urne del 2013 – continuano a dividersi in tre blocchi equivalenti: centrosinistra, centrodestra e incazzati grillini. Il che rende ancor più demenziale il premio di maggioranza dell’Italicum che regala il 55% della Camera alla prima lista, magari al di sotto del 30% dei voti validi (cioè del 15% degli elettori). E il record di astensionismo fa delle regioni l’istituzione più screditata e meno rappresentativa: la meno indicata per nominare i futuri senatori.

7) 5Stelle. A ridosso del Pd in diverse regioni e città, il M5S smentisce chi lo dava anzitempo per morto. Merito di alcuni suoi esponenti capaci di rendersi credibili dopo la ritirata mediatica di Grillo e Casaleggio. Ma anche merito del governo, che alimenta la speranza di qualcosa di radicalmente diverso. A lungo andare, però, vincere senza governare può stufare chi crede nel Movimento, che ora più che mai è a un bivio: porsi il problema delle alleanze, misurarsi con la difficile sfida dell’amministrazione e smentire la propaganda del “voto inutile”. Una sfida che potrebbe arrivare prima del previsto, se a Toti non bastassero 16 consiglieri su 30 e si rivotasse in Liguria e/o in Campania: un approccio sui contenuti con la sinistra landinian-civatian-cofferatiana pare l’unica strada.

8) Forza Lega. Salvini si aggiudica il derby con FI, ma senza B. non vincerebbe da nessuna parte, salvo il Veneto (dove però candidava il più rassicurante Zaia) e forse la Lombardia. FI, pur al suo minimo storico, si salva dall’estinzione: che, per un partito senza leader, senza idee, senza programmi e senza senso, è già un trionfo. Quindi Lega e FI sono condannate alle nozze o alla testimonianza. E quel che resta di B., che pure ha perso la supremazia a destra, avrà ottimi argomenti (numerici e finanziari) per contare ancora qualcosa al tavolo delle trattative con l’altro Matteo. Anche perché il suo cerchio magico ha vinto con Toti e ha rimesso in riga i nostalgici del Nazareno, Fitto e Verdini, che col dimagrimento di Renzi stanno – se possibile – peggio di B. Il quale potrà “investire” un volto più giovane e spendibile di lui (non è difficile: Mara Carfagna?) e sperare che intercetti su scala nazionale quegli elettori di centrodestra che non voterebbero mai nessuno dei due Matteo (modello Liguria).

9) Sinistra. È ancora un mondo senza leader: Civati è troppo debole, Cofferati troppo “ex”, Vendola è troppo screditato. Ma, se ne trovasse uno, se magari Landini si decidesse al grande passo, troverebbe un suo elettorato, in grado anche di ringalluzzire gli antirenziani rimasti nel Pd. Anch’essi sono in cerca di un leader che non puzzi di ditta e di muffa. Ma il loro peso contrattuale da oggi aumenta: col Pd sotto il 30%, un’eventuale scissione costringerebbe Renzi a porsi un problema finora inimmaginabile: il rischio di diventare il secondo partito alle elezioni politiche. Tantopiù che ora qualcuno potrebbe sfidare la sualeadership, smontando la famosa “mancanza di alternative” con un progetto neoulivista (intervista a Emiliano, pag. 10).

10) Informazione. Come sempre arroccati nei loro palazzi, spesso coincidenti con il Palazzo, i giornaloni avevano capito poco o nulla. Davano Renzi per imbattibile, gli accreditavano consensi oceanici grazie alle mirabolanti “riforme”, irridevano a chiunque non baciasse la sua sacra pantofola. E lui, poveretto, ci aveva creduto.

il Fatto Quotidiano, 2 giugno 2015

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