Sono in cerca di autorevoli smentite, stavolta. Da diversi anni a questa parte, vado osservando la grave asimmetria tra l’abitudine sempre più frequente a imporre il limite di età nelle assunzioni nei concorsi pubblici e quanto effettivamente la normativa prevede in merito. Alcuni esempi recenti: il concorso da vicecomandanti under 35 per ingegneri nei Vigili del Fuoco; il concorso per ingegneri civili in Anas (qui o anche qui); per dipendenti Trenitalia; per EnelLe fonti sono disponibili online e se vi fossero errori saremmo ben lieti di correggere l’articolo…

In un Paese ideale, il lavoratore che perda il lavoro in età avanzata dovrebbe essere soggetto a particolari tutele, essendo la persona più esposta a conseguenze drammatiche: famiglia a carico, mutuo e altri impegni finanziari. Nel nostro Paese, al suono assordante delle fanfare del neogiovanilismo dilagante, le selezioni limitano l’accesso agli under 35, quando va bene…

Invece di considerare la possibilità di un “reddito di continuità”, il nostro mercato del lavoro espelle a priori i lavoratori attempati. E gli chiude la porta alle spalle. Salvo poi innalzare schizofrenicamente l’età del pensionamento per tutti. Ma ce lo chiede l’Europa… Benissimo. E cosa dice l’Europa sulle assunzioni con le limitazioni di età nei concorsi pubblici?

La Direttiva UE 2000/78/CE in materia di occupazione garantisce livelli minimi di protezione che valgono per tutti coloro che vivono e lavorano nell’Unione Europea, tutelando i lavoratori rispetto a ogni forma di discriminazione fondata su sesso, razza, religione, età, disabilità e orientamento sessuale. Età, dunque. Ce lo chiede l’Europa.

La normativa italiana, nel recepire la Direttiva comunitaria, ha prodotto il Decreto Legislativo 216 del 2003 che, all’art. 3, definisce “Il principio di parità di trattamento senza distinzione di religione, di convinzioni personali, di handicap, di età e di orientamento sessuale si applica a tutte le persone sia nel settore pubblico che privato ed è suscettibile di tutela giurisdizionale secondo le forme previste dall’articolo 4, con specifico riferimento alle seguenti aree:
a) accesso all’occupazione e al lavoro, sia autonomo che dipendente, compresi i criteri di selezione e le condizioni di assunzione;
b) occupazione e condizioni di lavoro, compresi gli avanzamenti di carriera, la retribuzione e le condizioni del licenziamento;
c) accesso a tutti i tipi e livelli di orientamento e formazione professionale, perfezionamento e riqualificazione professionale, inclusi i tirocini professionali;
d) affiliazione e attività nell’ambito di organizzazioni di lavoratori, di datori di lavoro o di altre organizzazioni professionali e prestazioni erogate dalle medesime organizzazioni”.

In Italia, in netta controtendenza rispetto a quanto previsto dal vigente quadro normativo, un numero sempre crescente di selezioni, in ambito pubblico e privato, prevede una disciplina degli accessi che adotta la discriminante “età”. E sono numerose le diatribe legali sorte a causa di esclusioni che, come prevedibile, danno adito a legittime impugnative presso Tribunali Amministrativi e Consiglio di Stato, che assai spesso finiscono per accogliere le ragioni dei ricorrenti.

Da ingegnere, ho pensato di sottoporre la questione al mio Ordine territorialmente competente. Ciò dopo aver coinvolto in una ampia discussione tanti colleghi che attendono risposte sul tema. Se è vero che la legge ammette deroghe per categorie in cui la prestanza fisica diviene fondamentale (forze armate, in primis) non si intende davvero per qual ragione un professionista non debba essere ammesso a una selezione concorsuale allo scoccare dei 37 anni, a titolo di esempio. Tra noi ingegneri, al contrario, l’esperienza non fa che accrescersi sulla base dell’età. Ovviamente, la questione travalica il mondo della professione, estendendosi a tutte le tipologie di lavoratori.

Cerco da mesi qualcuno che smentisca la mia lettura del quadro normativo. È illegale l’esclusione di un aspirante dipendente mediante il limite di età o mi manca qualche tassello nel quadro normativo? In caso affermativo, perché non porre fine a un habitus discriminatorio assolutamente sconveniente? In ogni caso, perché non farlo comunque? Così, per puro buon senso…

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