E anche questo commissario “se lo semo levato dalle palle”. Parafrasando i Vanzina prendiamo atto che l’ennesima puntata della spending review all’italiana si è risolta nella più gattopardiana delle tradizioni. Non sarà forse il momento di prendere atto che quella di chiamare un super tecnico per individuare quei risparmi sulla spesa pubblica, che sulla carta sembrano sempre a portata di mano, ma che poi all’atto pratico presentano difficoltà e costi politici in termini di consenso, che nessuno governo si vuol permettere, non sia poi una grande idea?

Intendiamoci, che la spesa pubblica del nostro paese sia sproporzionata rispetto alla qualità dei servizi prodotti è fuor di dubbio (chi avesse perplessità sul rapporto costo/qualità della PA italica può sfogliare ad esempio il Global Competitiveness Report 2013-2014 secondo il quale l’Italia, scesa dal 42° al 49° posto (su 148 Stati) nella classifica generale di competitività è al 102° posto per contesto istituzionale. Tra i fattori che ostacolano la possibilità di fare impresa dopo la pressione fiscale e la possibilità di accesso al credito spicca con il 17% di risposte tra gli intervistati l’inefficienza della pubblica amministrazione), tuttavia l’impostazione in base alla quale la strada per rimediare al problema sia fatta prevalentemente di tagli drastici, oltre ad essersi dimostrata politicamente non perseguibile, ha il difetto di non cogliere appieno la radice dei problemi del nostro apparato statale.

Se misuriamo l’efficienza come rapporto tra risultati conseguiti/risorse impiegate è evidente che la via più semplice per ottenere dei guadagni immediati consiste nell’eliminare gli sprechi in modo da ridurre le risorse immediate a parità di risultati. Posto che si tratta di un esercizio sempre utile (soprattutto quando i margini di miglioramento sono consistenti) c’è da chiedersi quanto possa essere risolutivo: è un po’ come scegliere, avendo l’auto rotta in garage, di disdire l’RCA, qualcosa si risparmia, ma non è una soluzione che porta lontano…

Qual è la strada giusta allora? Spendere di più invece che di meno?

La pubblica amministrazione è un’organizzazione che ha il fine di offrire dei servizi alla collettività, come in qualunque altra istituzione di questo genere, la qualità dei suoi servizi e la loro economicità dipende principalmente da:

  1. quanto i processi (intesi in termini aziendali) e le “infrastrutture” (sistemi informatici, dotazioni strumentali) sono adeguati a raggiungere gli obbiettivi prefissati

  2. quanto le risorse sono qualificate e motivate al raggiungimento degli stessi obbiettivi

Intervenire sugli sprechi, per quanto apprezzabile, non incide su nessuna delle due dinamiche fondamentali del cattivo funzionamento dell’apparato statale, così come decisamente inadeguate appaiono le misure fino a questo momento messe in campo dal governo dal momento che si limitano accompagnare alla pensione qualcuno e prevedere sulla carta lo spostamento di qualcun altro.

Per ‘rivoltare la PA come un calzino’, invece di chiamare esperti che elaborino a tavolino delle soluzioni che poi i governi avranno cura di non seguire, occorre avere il coraggio di mettere in discussione radicalmente il sistema e il punto di partenza non può che essere rivedere le regole di ingaggio:

  • Per quanto riguarda i ruoli dirigenziali:
    – risultati attesi devono essere concordati in partenza e il compenso deve essere subordinato e commisurato al raggiungimento degli stessi, 
    – la performance va misurata in modo obbiettivo e determina la permanenza in carica (chi sbaglia prima paga e poi va a casa)

  • le risorse vanno selezionate in base alle competenze e all’esperienza passata (non alle adiacenze politiche), che di norma si sviluppano meglio lavorando nel settore privato

  • Per quanto riguarda gli altri ruoli:
    la selezione all’ingresso deve essere rigida e tenere in considerazione le competenze e le esperienze passate
    -un monitoraggio continuo dei risultati conseguiti deve essere alla base di qualunque avanzamento di carriera e assegnazione di prem
    una congrua dose di flessibilità deve essere richiesta onde poter adeguare le risorse alle necessità dell’istituzione per cui si lavora

  • in merito alle procedure:
    – occorre avere il coraggio di eliminare le procedure inutili 
    non devono esistere tabù o attività che non possono essere aggiornate e modificate

Qualunque ipotesi di riforma che non incida su queste determinanti fondamentali, si traduce di fatto (e si è tradotta fino ad oggi) in chiacchiere a buon mercato che possono forse dare l’impressione di voler cambiare qualcosa, ma di fatto si adoperano affinché nulla cambi. 

Ma se è tutto così semplice e logico, perché nessun governo lo fa? Neanche uno giovane dinamico e sveglio come quello di Renzi? La risposta sta ovviamente nell’elevato costo politico e di “consenso” che questa impostazione richiede:

  • una selezione trasparente e meritocratica dei vertici, con attribuzione di leve di governo e conseguenti responsabilità è l’esatto contrario dell’impostazione attuale su cui si regge una parte non trascurabile del sistema di potere dei partiti

  • dimostrare che determinati ruoli e funzioni sono eliminabili, così come evidenziare che certe attività possono essere svolte meglio e a costi inferiori, vuol dire ammettere il fallimento di chi vi ha operato fino ad oggi e, nella migliore delle ipotesi, cambiare ruolo e mansione a un elevato numero di risorse un giochino che di norma ti fa perdere più voti di quanti te ne porti consegnare un’amministrazione decente agli altri cittadini

Insomma, la spending review all’italiana, per quanto teoricamente utile e magari avviata con le migliori intenzioni, si può leggere come un’utile arma di distrazione di massa dalla realtà di un apparato statale che non solo non funziona, ma non potrà mai funzionare finché le linee guida degli interventi saranno dettate dall’aritmetica del consenso e dalla volontà di preservare l’alleanza funesta tra politici e burocrati ai danni del resto del paese.

 

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